L’uscita di un numero con due zeri è sempre un evento speciale per gli appassionati dell’indagatore dell’incubo, ma l’importanza di quest’ultimo numero è moltiplicata dal fatto di essere il punto di arrivo di un processo di rinnovamento radicale che ha cambiato per sempre il fumetto di Tiziano Sclavi.
Sceneggiato da Roberto Recchioni e disegnato da Angelo Stano e Corrado Roi, "E ora, l’Apocalisse" rappresenta la distruzione di un mondo, quello creato trent’anni addietro da Sclavi, ma anche il tentativo di realizzarne uno nuovo.
Nell’introduzione al numero 400, Recchioni spiega le ragioni di questa scelta, affermando che il suo racconto è sì una "celebrazione" di Tiziano Sclavi, ma anche «una sorta di commiato dalla sua straordinaria eredità, così gigantesca e inarrivabile da essere diventata una specie di fardello per tutti gli autori che si sono cimentati con il personaggio.»
È innegabile infatti che allontanandosi dalla sua creatura Sclavi abbia lasciato un vuoto, che nessuno aveva finora saputo o voluto colmare. Gli autori che ne hanno raccolto l’eredità, sono per molto tempo andati avanti facendo finta di niente; riproponendo all’infinito lo schema narrativo sviluppato da Sclavi, ma senza quella profondità di pensiero e quella fantasia visionaria che rendevano ogni suo incubo così assurdo e allo stesso tempo così reale.
Ha ragione Recchioni quando dice che Dylan Dog non deve essere «un’icona sacra da tenere in una teca a prendere polvere».
«Nelle mani di Tiziano, - continua Recchioni - il nostro Old Boy era un personaggio vivo, mutevole e in costante cambiamento», «una pietra rotolante su cui non poteva crescere il muschio»; ed è per questo che, da adesso in poi, «noi sceneggiatori venuti dopo Tiz ci prendiamo l’impegno di farla rotolare ancora, quella pietra. Magari, qualche volta, andremo fuori strada o ci incastreremo in qualche buca, ma promettiamo di non fermarci e di continuare a provare.»
Si potrebbe obiettare a Recchioni che una cosa è "andare fuori strada", e un’altra è lanciare "la pietra" nello spazio trasformandola in un meteorite; una cosa è restare incastrati in una buca, e un’altra è gettarsi con la pietra al collo in un abisso dal quale sarà impossibile venire fuori. Si poteva insomma dare al fumetto una direzione diversa, senza per questo stravolgerne completamente ed irrimediabilmente l’identità.
D’altra parte è anche vero che sono passati quasi sette anni da quando la Bonelli, in accordo con Tiziano Sclavi, ha passato ufficialmente il testimone nelle mani di Roberto Recchioni, e se questi voleva, come ha più volte affermato, dare al fumetto una sua personale impronta stilistica e narrativa, uscendo dal quel solco tracciato da Sclavi e seguito pedissequamente per trent’anni dagli altri sceneggiatori, ne aveva tutto il diritto, e forse anche il dovere.
Il problema di fondo però è un altro: per far rotolare una pietra basta la forza, ma per realizzare una bella storia ci vuole creatività, originalità, fantasia, stile, personalità, e soprattutto ci vuole talento; tutte cose che Recchioni non ha finora dimostrato di avere.
I suoi racconti sono superficiali, privi di spessore, noiosi, ma anche inutilmente carichi di citazioni e richiami. Tutte le frasi dei suoi personaggi sembrano prese a casaccio dalla bocca di altri personaggi. Tutto quello che accade nella storia è un susseguirsi di riferimenti ad altre storie. Tutto ciò che appare sulle pagine è già stato visto, letto e sentito decine di volte. Tutto ciò che esce dalla sua penna è una pallida imitazione di qualcosa che è già stato detto e scritto da altri prima e meglio di lui.
"E ora, l’apocalisse!" non fa eccezione ed anzi porta all’estremo la tendenza dell’autore a saccheggiare senza ritegno le opere più celebri del '900, illudendosi che basti ricomporne i pezzi seguendo un ordine logico per creare qualcosa che sia più di una semplice somma di imitazioni.
Inebriato da questa sua convinzione, Recchioni non esita nell’introduzione a fornire con autocompiacimento la lista delle opere scopiazzate: se ne possono contare 27, ma ce ne sono altre - dice - che non figurano nell’elenco. Dunque in una novantina di pagine ci sono una trentina di citazioni, ma alcune di queste si dispiegano su più pagine.
Risultato: un’accozzaglia di immagini e riferimenti che si susseguono senza sosta, e spesso senza una logica, fino al bizzarro metafinale, in cui Recchioni si libera dal "fardello" rappresentato dall’"eredità" di Sclavi, distruggendola assieme al suo stesso creatore (!!!).
"L’apocalisse" è compiuta, "e ora" può essere pubblicata in volume e distribuita in tutte le librerie d’Italia, per sancire e celebrare pubblicamente il nuovo corso iniziato da Recchioni.
Non passa neanche un mese però che al suddetto racconto si affianca nelle librerie un altro elegante volume. Il suo titolo è: "Dylan Dog presenta: i racconti di domani. Volume 1: il libro impossibile". Autore: Tiziano Sclavi.
A giudicare dalla diversa accoglienza riservata dal pubblico di appassionati ai suddetti volumi, si ha l’impressione che il Dylan Dog di Sclavi sia tutt’altro che morto… mentre quello di Recchioni sia soltanto un aborto.
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