Nel 1977, per il suo nuovo disco, Roger McGuinn voleva bissare la collaborazione con Mick Ronson dell'anno prima: quella condivisione d'intenti era ben riuscita, musicalmente rigenerante, e Mick aveva le giuste diversità di background per mescolare  acque che da tempo s'erano intorbidite. Ma Ronson è un artista corteggiato e sfuggente, ed è come l'ingrediente segreto che tanti vorrebbero aggiungere alla propria ricetta. Un artista non più da hit parade come McGuinn non può pretendere di averne l'esclusiva.

Si consola creando i Thunderbyrd, la sua quarta band se consideriamo i Byrds degli esordi e quelli della Columbia Records quali due collettivi differenti. Nove mesi dopo "Cardiff Rose", dunque, nasce e nascono i "Thunderbyrd", ultimo capitolo della storia di McGuinn solista negli anni settanta. Questo, in fin dei conti, perché l'ultimo anche dal punto di vista qualitativo.

E' sempre brutto non parlar bene di un disco quando è zeppo di covers, ma intanto per "Thunderbyrd" è doveroso. Innanzitutto non si capisce perché diamine ci si incaponisca a partorire albums ogni nove mesi manco si fosse mogli kosovare. Non ci è dato poi di comprendere se la non riuscita sia da ascrivere alle cinque composizioni a firma altrui o se ai quattro pezzi firmati Levy/McGuinn. Mi spiego meglio: le covers sono quasi tutte ottime canzoni, ma è l'arrangiamento se non addirittura l'interpretazione a renderle insufficienti: tutta questa musica di valore non rende perché è la veste McGuinniana a non donarle affatto, il ché di per sé è emblematico, dato che Roger è famoso forse più per essere un inventore disuoni e un riarrangiatore, piuttosto che per i propri componimenti. Se è sempre eccellente "All Night Long" di Peter Frampton, sarà forse troppo melodica la canzoncina root "American Girl" di Tom Petty, dove però è senza dubbio infima l'interpretazione di McGuinn, mai così atono prima in vita sua, la cui voce perdipiù non riesce neppure ad uscire dai solchi; ed è gradevole "We Can Do It All Over Again" del blues man Barry Goldberg, rivisitata in chiave country-rock, ma l'esperimento pare più intelligente che bello. Infine, "Why Baby Why", un country bello lesto che Roger prova, contrariamente al brano di prima, a tingere un po' di nero. Qui l'uomo con la Rickenbecker, che non è dunque Fats Domino e non è Ray Charles, mostra concretamente più di un limite.

Eppoi che dire di "Golden Loom" di Bob Dylan? Questo mezzo blues rock leggerino non è certo il cavallo di battaglia o la perla nascosta della discografia del celebre menestrello, e questa versione, peraltro piuttosto fedele e credibile, non le alza il livello di resa. Ma dico con tutti i pezzi di Dylan a disposizione, e con uno come Roger che non si vergognò a coverizzare "Knockin' On Heavens' Door", non si poteva optare per un brano migliore?

Sul fronte componimenti propri, se "It's Gone" pare anticipare con la sua cavalcata il gusto dei Dire Straits di "Sultans Of Swing", il blues and roll "Dixie Highway" e la mezza ballatina "I'm Not Lonely Anymore" sono realmente inascoltabili. La finale, pressoché indovinata, caleidoscopica "Russian Hill" è fuori tema, troppo lenta e anche un po' floydiana, inattesa nella produzione di Roger che da tempo pareva aver abbandonato ambizioni cosmiche.

"Thunderbyrd" è un lavoro nato male e riuscito peggio di un artista senza equilibrio, che siccome non seppe tenersi a freno nel produrre a suo nome, per la legge della compensazione non pubblicherà da solista per quattordici anni.

Il rimedio che spesso è peggio del male.

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