Intenzionati a passare il fine settimana sulla loro barca, un giornalista e sua moglie incontrano uno studente autostoppista lungo la strada per il porticciolo. Gli offriranno di trascorrere con loro la breve vacanza.

Con due attori alle prime armi (Jolanta Umecka che interpreta la moglie del giornalista e Zygmunt Malanowicz nei panni del giovane) e un curriculum personale di una decina scarsa di cortometraggi, Roman Polanski, regista e attore polacco, bagna il suo debutto dietro la cinepresa con una nomination all’Oscar come miglior film straniero e col premio FIPRESCI alla miglior regia.

La storia de “Il coltello nell’acqua” (1962) è quella del confronto tra due mondi opposti (il giornalista, il giovane) sostenuti però dallo stesso comune denominatore (la dimostrazione della superiorità insita nel proprio modo di vivere) e basati sulla nevrosi del possesso (il coltello del giovane per il giornalista, la moglie di quest’ultimo per il giovane). La trama, che narrativamente funge da pretesto, è in realtà indissolubile dalle implicazioni culturali e sociali: la Repubblica Popolare di Polonia è da pochi anni entrata nella fase “liberale” del regime comunista (il giovane autostoppista che rompe l’equilibrio “totalitario” dell’uomo borghese) e le correnti che la attraversano portano con sé la frustrazione del compromesso e della propria conseguente incompletezza (l’elastico delle tensioni tra i due uomini). Il lago, segno costante ed “indefinito” sulla cui immobile superficie si animano e riflettono le vicissitudini umane, è un non-luogo di impressionante quanto semplice efficacia, e la figura femminile, dapprima ininfluente oggetto della contesa alla pari d’un coltello, si erge a catalizzatrice unica delle bieche pulsioni d’una società maschilista, nonché (sola in grado di esserlo) a giudice del confronto; così il tradimento con lo studente diventa la più violenta affermazione di sé possibile, nonché l’embrione d’un tentativo di fuga dalle falsità e cecità coscienti che regolano i rapporti umani (confesserà tutto al marito, che non le crederà).

Ad una mezz’ora finale thrilling, con tanto di presunto morto (il giovane), si arriva tramite un uso sorprendentemente sapiente, quindi maturo, dei tempi e della suspense da essi scandita, in un gioco ironico con cui Polanski ci annuncia l’esplosione del conflitto, il suo punto di non ritorno, ma poi ce lo proroga, lo nasconde, lo riallaccia alle pieghe appena percettibili dei nervi e delle maschere delle tre anime in barca. Le geometrie perfette che regolano gli equilibri delle inquadrature (gli angoli acuti dello scafo e della vela, la costanza dell’orizzonte, gli attraversamenti improvvisi dello spazio da parte dei protagonisti), assecondate da uno splendido contrasto bianco/nero, sono il compendio visivo del primo atto d’una carriera, quella di Polanski, destinata a segnare, con molti acuti e qualche perdonabile caduta, il cinema mondiale della seconda metà del novecento.

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