Premessa: questa recensione inizia con alcune riflessioni polemiche personali riguardo ad alcuni temi extra cinematografici di questi mesi, se si vuole, si può saltare la prima parte ed andare direttamente sul capitolo dedicato al film.
Il vecchio Roman è ancora qui. Lotta e combatte tra noi, che amiamo il suo cinema da sempre.
Nonostante la schiera di ipocriti che, in nome del neo-puritanesimo perbenista travestito da lotta per i diritti e contro molestie e abusi di potere, rappresentato da movimenti di natura neo-nazisti pubblicizzati anche dalla "nostra" Asia Argento (già firmataria della petizione pro-Polański, già reinventatatisi forcaiola, ora a sua volta finita nel ciclone da ella stessa alimentato... Quando si dice la perversa giustizia divina) che hanno appena portato ad una fine prematura la carriera dell'altro "grande mostro" Woody Allen, con stop forzato (il primo in cinquant'anni) e cancellazione del suo ultimo film già fatto e finito A Rainy Day in New York; e che, di certo, gioirebbero a vedere sulla forca anche il regista di Rosemary's Baby e L'Inquilino del terzo piano ora ottantacinquenne (solo Eastwood, tra i maestri irriducibili tuttora in piena attività, gli è sopra con gli anni, e il sopra citato Allen poco sotto).
Polański, in ogni caso, negli ultimi mesi, per l'ennesima volta biasimato, scomunicato; hanno addirittura tirato fuori vecchie dichiarazioni di Tarantino per ritorcerle contro quest'ultimo (anch'egli finito in mezzo grazie ad alcune accuse della sua vecchia favorita Uma Thurman, ma Quentin è ancora una macchina da soldi troppo imponente per essere fermato bruscamente come fatto con Woody), lo hanno espulso dall'Academy, salvo poi invitare la moglie ad entrare nel dorato giro di chi vota per assegnare le statuette più politically correct e liberal dello star system. Ricevendo memorabili e splendide picche dalla Seigner stessa.
Seigner che non ha mai smesso di sostenere e stare accanto al marito. Umanamente, moralmente e professionalmente. Come qui, in questo loro ultimo film insieme in ordine di tempo.
D'après une histoire vraie.
Fin dal suo esordio con il film di culto Il coltello nell'acqua, e poi lungo una intera carriera, Polański non ha mai smesso di interrogarsi sulla natura e sullo sviluppo delle complesse e labili dinamiche di potere tra pochi individui, scavando nelle menti e nelle psicologie, nelle debolezze e nelle paranoie creando uno stile di regia, seppur non immune dalle lezioni di alcuni maestri - Hitchcock in primis -, personalissimo e passato alla storia come uno dei più influenti e studiati. Che si tratti di rapporti matromoniali, attori disposti a fare patti sol Diavolo, rispettabili individui insospettabili ex aguzzini di un tempo o scrittori in crisi, le difficoltà, le frustrazioni, le repressioni e le ipocrisie della borghesia sono mostrate impietosamente, in film che vanno dal drammatico al grottesco al dramma da camera (con Rope che torna in mente, come nel riuscitissimo Carnage). Ed anche in questa ultima fatica Polański torna ancora una volta lì, tra soli due protagonisti, come nel precedente Venere in Pelliccia.
Questa volta, per la prima volta, due donne. Il doppio: un terreno che Polański ha percorso non così spesso, in realtà. Se il contesto non è estremizzato come nel precedente, con Seigner e Amalric unici attori di tutto il film, qui ogni altro piccolo protagonista è una mera comparsa. Ci sono solo loro: Delphine, scrittrice in crisi (appunto), e Elle (Elisabeth, Lei-Leila in italiano per mantenere il gioco sul pronome femminile), ghostwriter per biografie di personaggi dello spettacolo e della politica, misteriosa grande ammiratrice di Delphine.
Emmanuelle Seigner e Eva Green. Già per una coppia del genere il film meriterebbe di essere visto.
Film che, però, è stato accolto molto freddamente anche da diversi appassionati di Polański; secondo me, molto ingiustamente. Perché, se è vero che, di fatto, a parte l'avere due protagoniste femminili, non propone nulla di nuovo e, col senno di poi, non aggiunge molto alla sua carriera, si tratta ancora una volta di un lavoro di splendida fattura. Girato con inevitabile maestria, in cui nessuna inquadratura è sprecata, in cui la tensione non scende ma anzi cresce man mano fino a che, tra le due, non si innesca un rapporto sempre più malato che quasi ricorda quello di Misery.
Ma per tutto il film l'ambiguità e le allusioni vengono preferite rispetto a qualcosa di più esplicito, soprattutto da un punto di vista erotico (e qui c'è il rimpianto che Roman non abbia osato un po' di più, ma appunto si tratta di una scelta di campo), Il Polański più puro si ritrova senz'altro nella parte finale, in un crescendo di ricordi e confessioni, claustrofobia e angoscia, misteriose malattie e violenza psicologica. Niente che dal mondo esterno si possa mettere fisicamente per nemmeno un istante tra le due. E seppur il twist possa non essere una sorpresa per chi abituato al cinema del polacco, anche per chi non dovesse conoscere il libro (dai risvolti evidentemente autobiografici di Delphine de Vigan) che ha ispirato l'opera, la sensazione è di un altro film riuscito; anche volendolo considerare come un esercizio di stile, o un lavoro "col pilota automatico". Considerazioni, queste, legittime.
Ma che, ad ogni modo, per quanto mi riguarda, non si traducono mai in delusione. Per 100' minuti mi sono goduto questo piccolo ultimo lavoro polanskiano. E, come mi ritrovo a ripetere ogni volta che finisco un suo nuovo film, ho detto: lunga vita a Roman.
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