Inni per sconfitti.
“Flowers from Exile” e “Nos Chants Perdus” erano stati rispettivamente l’album “spagnolo” e l’album “francese” dei Rome. Se il triplo “Die Aesthetik der Herrschafts-freiheit”, nella sua imponenza, era stato il “Disco-Mondo”, e “Hell Money”, con la sua strenue lotta al Capitale, poteva essere visto come quello “americano”, “A Passage to Rhodesia” è indubbiamente l’album “africano” di Jerome Reuter.
“To live in Africa you must know what it is to die in Africa”
(E. Hemingway)
Con Rome si ritorna a gettare sale sulle ferite: ancora una pagina insanguinata della Storia recente, di quella più torbida e sconosciuta, dimenticata, è il tema oggetto di indagine dell’instancabile musicista lussemburghese. Rhodesia: l’ex colonia britannica che nel 1965 cercò di rendersi indipendente, un tentativo che scaturì nella brutale escalation di violenza e morte di una sanguinaria guerra civile che vide contrapposti il Rhodesian Front (i ribelli bianchi, che intendevano instaurare uno stato basato sull’apartheid, e per questo osteggiati dalle forze occidentali) e la fazione di guerriglieri foraggiata dall’URSS e capitanati dal feroce Robert Mugabe (il futuro dittatore dello Zimbabwe, lo stato che verrà proclamato al termine degli scontri).
Inni per sconfitti. Con lucido distacco Jerome Reuter racconta le vicende prendendo adesso l’una o l’altra posizione, ricostruendo gli eventi, non con il rigore del cronista, ma attraverso gli occhi lacrimevoli del poeta: descrivendo, interpretando sensazioni, combattendo l'ipocrisia dei grandi poteri e schierandosi per l’umanità, per l’affranta umanità di uomini che hanno combattuto per un’idea, per un ideale, per una causa destinata alla tragica sconfitta: questo il tema che da sempre anima le dolorose perlustrazioni della Storia di Reuter.
Il suo ultimo lavoro (uscito nel 2014 in un box dai costi proibitivi per chiunque – un autentico suicidio commerciale – e finalmente, nel 2015, edito anche in una edizione alla portata delle tasche dei comuni mortali) guarda indietro nella discografia dei Rome, approdando proprio dalle parti di quegli album che abbiamo citato in apertura: quei “Flower from Exile” e “Nos Chants Perdus” che, con questo “A Passage to Rhodesia”, vanno a costituire una sorta di ipotetica trilogia. Opere, le prime due, che evidenziarono una importante sterzata nella carriera dei Rome verso i lidi del cantautorato tout-court. Se con gli episodi successivi, complice anche la separazione dal produttore Patrick Damiani, si tornò ad un sound più diretto, essenziale, più apocalittico se vogliamo, il sempre solitario Reuter torna oggi a guardare alle sofferte ballate della sua “fase di mezzo”, centrando in pieno il bersaglio.
Sarà che erano tre anni che non ascoltavo niente dei Rome (un’eternità per un artista che ci aveva abituati a fitte pubblicazioni a scadenza annuale), ma questo ultimo lavoro ho finito per apprezzarlo moltissimo, forse più degli altri. A distanza di anni colgo un che di artefatto nell’estro di Reuter: dopo nove album, del resto, al Nostro non mancano certo destrezza e mestiere, ma è forse l’eccessiva enfasi che egli mette in ogni singola nota e parola a rendere il tutto sopra le righe, come se l’urgenza comunicativa fosse spinta dal basso da un’artiglieria troppo pesante per passare inosservata. Ma se Reuter non ha la sensibilità del cantautore raffinato, egli in compenso ha la forza e la dirompenza del narratore visionario, quella qualità rara che oggi lo rende indubbiamente il più grande e maturo interprete del folk apocalittico, senza, peraltro, custodirne gli scomodi feticci.
Oramai Reuter, artista maturo e dalla personalità definita, maneggia la sua materia artistica con grande disinvoltura, non cercando di fare l’autore, il Leonard Cohen, a tutti i costi, ma abbandonandosi senza remore a quello che gli riesce meglio: un potente folk apocalittico che guarda, con grande indipendenza stilistica (tanto che oggi il suo sound è riconoscibile fra mille), al Douglas Pearce di “But, What Ends When the Symbols Shatter?” e “Rose Clouds of Holocaust”. Un capolavoro che si rifà ad altri capolavori, dunque, ma con grande personalità e classe: se è la chitarra acustica, come sempre, ad essere chiamata a supportare il sofferto crooning di Reuter, è negli arrangiamenti accuratissimi, nelle tastiere pregne di apocalisse, nella solennità marziale delle percussioni, nelle voci campionate provenienti dai più oscuri recessi della Storia, che ritroviamo le caratteristiche vincenti dell’ultimo sanguinario parto discografico dei Rome. Un album di paradossi: in esso il caldo e la natura rigogliosa dell’Africa Meridionale è oscurato dallo spettro della Vecchia Europa; in esso umori mitteleuropei tipici del genere si fondono alle ambientazioni esotiche che richiamano la letteratura di autori come Ernest Hemingway e Joseph Conrad.
“Electrocuting an Elephant” (ma che belli i titoli dei Rome!): un’”orchestra scordata” è l’invocazione, il rito volto alla regressione indietro nel tempo verso un oblio che non promette niente di buono. Irrompe la limpida voce baritonale di Reuter in “The Ballad of the Red Flame Lily”, vagamente pop nel suo incedere, come i Rome non sapevano essere da qualche album a questa parte. Fra intime, epiche ballate ed intermezzi ambientali di grande impatto, la musica dei Rome, nonostante i temi trattati, raramente si fa prepotente. L’impeto, lo slancio lirico, in “A Passage to Rhodesia”, sono frenati costantemente da un pathos narrativo che impone rigore e severità: un’emotività trattenuta, come se le parole a fatica uscissero da una gola rotta dal pianto. La parola magica “Rhodesia” (come a voler continuamente rimarcare il concept, ma anche nell’intento, probabilmente, di generare un mantra che scavi a fondo sotto alla pelle dell’ascoltatore), ricorre spesso nei testi, costellati da citazioni di Hemingway, Sartre, Eliot, Orwell ecc.
La possente ballata “One Fire” (che non sfigurerebbe, con la sua baldanza, in un album dei Cult of Youth), la tragica e solenne “A Farewell to Europe” (con i suoi cori striscianti e le imponenti percussioni), la severa “Hate Us and See if We Mind” (Death in June fino al midollo!) e la struggente “In a Wilderness of Spite” (con quella voce di donna lanciata nel finale in un crescendo di intensità morriconiana) sono a mio parere gli episodi più entusiasmanti di questo album che, davvero, non presenta segni di cedimento nel suo argomentarsi, non abbassando mai la guardia, mai allentando la tensione. Fino alla conclusiva, commovente (dai toni fatalistici e non priva di quello slancio distensivo che spesso pervade i brani di chiusura negli album dei Rome) “Bread and Wine”; fino all’ironico epilogo-farsa costruito sulle atmosfere da canzonetta-anni-sessanta di “The Past is Another Country”: mai outro fu più doloroso.
“Between the idea and the reality, between the motion and the act falls the shadows”
(T.S. Eliot)
Inni per sconfitti. Inni per tutti noi.
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