Nell'agosto del 2016 usciva, dopo dieci anni esatti di attività, il nono album dei Rome, alias Jerome Reuter.

Nel corso degli anni il Nostro si è dato da fare, non facendosi mancare ben sette EP, il primo dei quali, "Berlin", costituiva nel 2006 il suo debutto ufficiale. Come a chiudere un cerchio simbolico, l'EP è stato ristampato proprio l'anno scorso, mentre l'entità Rome "tornava", con "The Hyperion Machine", in Germania, o, per meglio dire, nel cuore della vecchia Europa, dopo la scorribanda "africana" del bellissimo "A Passage to Rhodesia".

L'"Hyperion" richiamato nel titolo è l'Iperione ritratto da Johann Christian Friedrich Holderlin nell'opera letteraria "Iperione o l'eremita in Grecia" (1797): romanzo epistolare in cui il protagonista, esule tedesco in terra greca, riflette sulla crisi valoriale della propria patria, rapportandola ai canoni della bellezza classica, in un gioco di specchi fra presente e passato, Germania e Grecia. Recita un illuminante passo di Wikipedia: "E' la vicenda dell'uomo moderno, dell'uomo tedesco nello specifico, che non è capace di armonizzare le forze della sua anima perché ha perduto il senso del divino e dell'armonia. [...] Il poeta è dunque un vate che, fallito sul piano dell'azione pratica e violenta della guerra, decide di lottare per il proprio popolo aiutando a stabilire la perduta armonia".

Su questo sfondo si adagiano le nuove composizioni del cantautore lussemburghese, da sempre schierato dalla parte degli sconfitti, purché animati da nobili ideali. Come prevedibile, il nuovo album è uguale ed al tempo stesso diverso rispetto agli altri: dopo una carriera così densa e prolifica, seppur breve, il processo creativo del Nostro può poggiare su uno stile solido e ben delineato. Entro questo schema anche questa volta egli è in grado di ricamare interessanti novità intorno al nucleo fondante della sua coerente visione artistica.

Il livello qualitativo della sua arte si mantiene nel frattempo soddisfacente, sebbene qua e là venga il sospetto che si sia indugiato più sull'effetto generato dall'arrangiamento che sulla scrittura in sé: Reuter, del resto, è una mente feconda, ma nonostante questo il risultato del suo "affannarsi" in studio di registrazione (questo lo abbiamo potuto testare a più riprese ascoltando i suoi numerosi album) continua ad oscillare attorno ad un baricentro posto a metà strada fra il buono e l'eccellente.

In pari modo anche il range espressivo non può prescindere da un cuore impregnato della sofferta ed epica poetica del Nostro, che oggi più che mai può vantare lo status di alfiere più credibile del folk apocalittico del terzo millennio, benché egli sia nel corso degli anni approdato ad altri lidi. C'è chi parla di "sad-core" e c'è da dire che non siamo lontani dalla realtà, visto che lo spoglio cantautorato delle origini, visitato da fantasmi industriali, si tinge oggi di inediti colori: un sound più corposo ed articolato si sta costruendo attorno alle oscure ballate di una volta, tanto che in certi frangenti si può parlare di rock, o almeno di un goth-rock manierato che non può non evocare i Cure o le frange più romantiche e melodiche della dark-wave ottantiana, addolcita ulteriormente dai riferimenti che hanno caratterizzato il cammino di Reuter a partire dalla svolta cantautoriale imboccata con "Flowers from Exile", Leonard Cohen e Nick Cave in primis. Senza ovviamente tralasciare del tutto quelle reminiscenze morriconiane ereditate dall'universo neo-folk da cui il Nostro proviene.

Per il resto, Reuter pare guardare verso gli orizzonti di una maggiore accessibilità, e non è un reato, data l'ispirazione che continua a muovere la sua penna: in ben quattro brani compare la batteria, spesso le chitarre acustiche sono doppiate da quelle elettriche che portano con loro una scorsa rock che a tratti suona inedita, pur non rivoluzionando la proposta nel suo complesso. Più in generale si respira "aria di canzone" e l'impressione è che l'autore, dopo anni di rigore e severità, si stia dirigendo verso dimensioni più melodiche, ritmate, in una parola: orecchiabili. Con risultati tutt'altro che deludenti, tanto che potremmo vedere l'opera come l'inizio di un possibile nuovo corso per il progetto. Avere visto di recente Reuter dal vivo, con in braccio sempre più spesso la chitarra elettrica invece che quella acustica, con una band vera alle spalle, con i suoi classici ammantati di elettricità e il suo repertorio valorizzato nella variante post-punk, sembra corroborare questa tesi.

Ma torniamo all'album, dove, come consueto, il Nostro si fa carico di tutta la strumentazione, salvo l'aiuto ricevuto per gli arrangiamenti da Francois Dediste, il violoncello di André Mergenthaler che fa capolino in tre brani e la batteria di Laurent Fuchs, come si diceva, in addirittura quattro. L'intima apertura affidata (dopo all'immancabile introduzione atmosferica) all'intensa "Celine in Jerusalem", l'appassionante ballata "Stillwell" (momento di grande suggestione), lo struggente crescendo emotivo allestito in "Skirmishes for Diotima", l'abisso coheniano scavato con "Adamas" portano impresse a fuoco il marchio Rome e sono animate dalla caratteristica voce da baritono di Reuter, gemito struggente a tratti, rantolo cavernoso da crooner navigato in altri.

Brani come "Transference", "The Alabanda Breviary" e "Cities of Asylum", invece, si fanno movimentate, incalzanti e mostrano una maggiore attenzione a melodie accattivanti e di facile presa, senza ovviamente scadere nel banale.

A dimostrare la versatilità del Nostro, ci pensa lo scorcio finale dell'album: quando pensavamo di aver capito tutto, ecco che rispuntano fuori da un nefasto passato le sirene anti-raid e i cori sacri, edificando scenari catastrofici che resuscitano il più autentico spirito del folk apocalittico. L'evocativa coda della già citata "Adamas", che sfuma in un terrificante dark-ambient, e il canto solenne catturato in "Die Morder Muhsams", dedicato alla morte dell'anarchico Erich Muhsam, ci riportano inaspettatamente ai primi album licenziati dai Rome. In mezzo a queste parentesi, dove lo sfacelo della guerra si mischia al sacro ed al mistico (tanto che sembra di essere finiti di colpo nel "Brown Book") si materializza un gioiello che è destinato senz'altro a rimanere fra i classici del repertorio dei Rome: "The Secret Germany" è una ballata che per bellezza ed intensità rievoca le atmosfere tese e drammatiche del capolavoro della prima ora "Masse Mensch Material", portando però con sé quella sensibilità da cantautore che negli anni il Nostro ha avuto modo di sviluppare.

Chiude le "danze" la bonus-track "FanFanFan", cover del veterano artista svedese Thastrom (che peraltro aveva prestato la sua voce in "Stillwell"), attivo da molti anni sul fronte della causa industriale e del post-punk, con virate recenti verso una forma di cantautorato che lo riavvicina alle eleganti movenze dei Rome: con i toni distensivi ed elagici di questa ennesima riuscita ballata si conclude l'ennesimo colpo vincente di Jerome Reuter, oramai una garanzia per quanto riguarda il lato oscuro del cantautorato contemporaneo.

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