Due mani che sembrano abbracciare un contrabbasso, quasi fossero due amanti in preda ad una forte estasi d'amore: è questa la prima immagine che ci viene offerta di questo disco. Non un volto, nè tanto meno nessun'altro strumento: solamente delle lunghe e sottili dita nodose simili a dei rametti di un albero dello stesso colore del contrabbasso sono lì a testimoniare l'assoluta intimità di quel gesto, come se musicista e strumento fossero un'unica cosa. Che staranno suonando ancora non ci è dato saperlo....
A lato della copertina, due altri piccoli indizi: "Pick'Em", titolo del disco del 1978, e soprattutto un nome, Ron Carter.

Nome che si porta dietro un'intera storia del jazz e un certo modo di concepire il contrabbasso nella sezione ritmica che è ormai scuola; storia che è iniziata ad essere scritta nelle orchestre di Eric Dolphy nei primi anni '60, è passata per Thelonious Monk, ha trovato il suo apice con Miles Davis nel periodo 1963-1968 e rivive tutt'ora a settant'anni suonati (in tutti i sensi) ogni volta che questo musicista decide di prendere in mano il suo strumento preferito.

Ma non di solo contrabbasso si vive, questo Ron Carter lo sa bene, e infatti a partire dagli anni '70, oltre al suo strumento prediletto, decise di utilizzare un altro strumento da lui stesso inventato e perfezionato: il piccolo bass, una specie di contrabbasso a dimensioni però più ridotte e accordato un'ottava più alta. Il suono è curiosissimo, molto frizzante e più spigoloso rispetto ad un normale contrabbasso, come se ascoltassimo un violoncello più ovattato e con... il raffreddore! E' grazie al piccolo bass che possiamo cogliere la vera voce di Ron Carter su "Pick'Em", non solo nei suoi momenti solisti ma anche durante l'accompagnamento: una voce caldissima, profonda, piena di groove e fantasia, in continuo dialogo non solo con il proprio strumento e il resto dei musicisti, ma soprattutto con l'ascoltatore, il quale, a mio parere, avrà proprio l'impressione di avere di fronte il musicista americano intento a giocare con il suo strumento, come avviene per esempio nella traccia per solo piccolo bass "B And A".
Ad accompagnare il contrabbassista in questa avventura troviamo un quartetto d'archi di soli violoncelli: l'intento di Carter, infatti, era quello di far convivere gli strumenti classici all'interno dell'idioma jazz, sfruttando le possibilità che questi strumenti offrivano. Anche se l'esperimento non era certo nuovo in quest'ambito, il risultato è ottimo: lungi dall'essere da mero contorno, l'atmosfera creata dal quartetto è funzionale ai pezzi, ora romantica e lievemente malinconica come in "Tranquil", ora invece più movimentata e country nella title-track (impreziosita con dei gustosissimi assoli di armonica). A completare la line-up dei musicisti coinvolti nel progetto troviamo Kenny Barron al piano, Buster Williams al contrabbasso (ma solo per accompagnamento) e Ben Riley alla batteria: tutti musicisti di valore naturalmente, ma qui messi troppo in secondo piano, tant'è vero che solo Barron riesce a ritagliarsi dei piccoli momenti solistici.

L'attenzione, quindi, è tutta focalizzata su Carter e sul quartetto d'archi: due mondi differenti ma assolutamente complementari che il grande musicista è riuscito a far convivere, calpestando ancora con più convinzione i detriti di quel muro che, ancora oggi, molti vorrebbero ergere fra i vari generi. Quest'album è la testimonianza di un certo modo di intendere la musica, concetto ribadito fra l'altro da "Super Strings" di tre anni più tardi, disco che porterà al massimo compimento l'idea primigenia contenuta in "Pick'Em".

...quelle mani continuano a volare sulle corde disegnando nuove geometrie: una nuova carezza, un'altra, un'altra ancora...

Carico i commenti...  con calma