Distinguere il prescindibile dall'imprescindibile è da poveri di spirito, da sovrastrutturati: la memoria, come il sogno, non distingue utile da inutile, significativo da insignificante.
Nel passato, prossimo o remoto che sia, tutto importa e non importa più niente.

Il passato presunto di un io inaffidabile, intossicato di rimpianti e bicchierini di grappa scadente, è una città di dettagli trascurabili, o fondamentali: Farci - barbiere e militare sbandato, tra i più grandi pittori del novecento, a fine novecento, prete suicida e tante altre cose - non sa quanto rilevante sia una tacca tra le mille e più, sul catalogo di Alberto: ogni tacca, la conquista di una notte; ogni conquista di una notte, la vita di una donna lacerata dalla solitudine o da una perdita. O donne finalmente, lacerate nel senso più fisico del termine: una tacca rossa per ciascuna.
È forse l'individualità di ogni conquista a fare grande l'impresa? O l'impresa, nella sua grandiosa globalità, legittima il sacrificio delle individualità?

Farci si perde negli ipotetici ricordi di Alberto, il catalogatore, il don Giovanni senza scrupoli che è il senso di tutta la sua esistenza. L'ironia di Alberto racchiude lo spirito della provincia, il suo regno: regno delle scarsezze dalle grandi pretese.
La concupiscenza che in Alberto è impulso vitale, cela forse la sofferenza inconfessabile di un orfano - "un santo", diranno di Alberto - o forse è nient'altro che l'espressione del cinismo di un piccolo borghese colto e perverso: il classico puttaniere che nel disagio dei bassifondi trova facile sfogo per le sue voglie insaziabili.
Vivono nell'ambiguità, Alberto e Farci, negli ambigui anni novanta provinciali di questo romanzo: il passato si confonde con il presente, negli oggetti e negli ambienti, e la grandezza oggettiva che dal mondo arriva in periferia come un'eco lontana, si confonde con la grandezza tutta soggettiva dei fenomeni locali, invece potenti protagonisti dei piccoli mondi periferici dai quali sono generati.

È Sassari la capitale di quel mondo, la città dei ricordi, in una suggestione di particolari che proprio per la loro particolarità sembrano affiorare spontanei e (almeno) verosimili dalle pagine della memoria di Farci, inetto e io narrante di stirpe zeniana.
Sassari come teatro decadente - decadenza forse anche letteraria - delle tragedie di donne dai soprannomi esotici e di uomini sconfitti in balia di palliativi folkloristici che Mannuzzu dispone, insieme ai tanti altri tratti caratteristici che compongono il quadro sassarese, con maestria tale da valicare la provincialità alla quale un romanzo così connotato dal milieu - per giunta isolano e tradizionalmente isolato - parrebbe fatalmente votato. Oppure Il catalogo è da annoverare tra i romanzi provinciali italiani per eccellenza, senza connotazione negativa.

Un caffè versato in mezzo bicchiere di acqua gassata e mescolato, come i tanti dettagli - quelli apparentemente insignificanti - ha in questo romanzo il carattere insieme fastidioso di particolare prepotente che prevale sui sensi generali, vani graal dell'esercizio della memoria, e sacro di celebrazione, pur nella sua insignificanza, di tutto ciò che intorno ad esso è irrimediabilmente perduto. Come succede ai vecchi, quando ricordano.

Così come un ratto calpestato nel disgusto, può essere presagio della più grande delle sventure, o un braccialetto di rame, forse, la chiave di una porta che resterà chiusa: Il catalogo è una domanda senza risposta, una stratificazione di ambiguità che resteranno irrisolvibili; e forse proprio nella mancanza di significati risiede il fascino irresistibile di Alberto, e di un romanzo speciale per chi ha in quel piccolo mondo il suo mondo.

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