L'arrivo nelle sale nel 1999 di "American beauty", oltre a suscitare un clamore inaspettato in tutti gli ambienti cinematografici, segnò anche l'entrata in scena di Sam Mendes, regista britannico che da quel momento in poi ha fatto discutere molto, fortunatamente più per le sue pellicole che non per dichiarazioni o gossip (anche se c'è da segnalare una storia finita male con la splendida Kate Winslet). Prima è subentrata la curiosità, poi sono anche arrivate piogge di elogi per quello che è stato considerato come "una delle più promettenti speranze del cinema mondiale". Dal suo debutto sono ormai passati diversi anni e altri film hanno seguito "American beauty".

"Road to perdition" (tradotto in italiano con un ruffiano "Era mio padre") è la seconda opera registica di Mendes che cambia lo scenario rispetto alla sua prima fatica. Si torna indietro all'America del proibizionismo e della criminalità dilagante. La storia è basata essenzialmente su due personaggi: Michael (Tom Hanks) e suo figlio Michael Jr. (Tyler Hoechlin), legati non soltanto dal rapporto padre/figlio, ma anche da un'evento famigliare dai risvolti tragici. Un avvenimento che sconvolge la loro vita quotidiana e che apre scenari fino ad allora del tutto inaspettati.

Quest'elemento di rottura avvia una pellicola che fino a quel momento aveva "gettato le basi": interessante è il racconto che Mendes fa del suo soggetto, dando un tocco quasi da road movie ad un gangster classico, seppur ispirato ad un fumetto decisamente più movimentato della narrazione del buon Sam. Su queste insolite coordinate di vagabondi killer d'America, l'autore irrompe con il tema della famiglia, il "mantra" che caratterizzerà anche le successive opere ("Revolutionary road" e "American life). Anche in questo caso (come appunto per i film futuri) il nucleo famigliare è composto da due soggetti: Mendes però, non si limita ad analizzare l'avvicinamento reciproco dei due Michael Sullivan, ma analizza anche il legame affettivo che lega lo stesso Michael e il suo "datore di lavoro" John (Paul Newman, qui alla sua ultima apparizione importante prima della morte). Infine, sempre nella decostruzione psicologica delle varie coppie famigliari c'è quella tra lo stesso John e suo figlio Connor (Daniel Craig), personaggio subdolo e consapevole della distanza che lo separa da suo padre.

Un puzzle complesso che Mendes riesce a risolvere con maestria dietro la macchina da presa, facilitato da una rappresentazione esaltata dalla splendida fotografia di Conrad Hall, anch'esso morto dopo le riprese del film. Meno convincente la sceneggiatura di David Self. Mendes sopperisce facendo parlare le immagini, costruendo un film "dosato" e "classico" nel suo evolversi verso un finale forse un po' scontato, ma eccelso per realizzazione e risultato. Quello che fino agli ultimissimi secondi potrebbe sembrare un "passaggio di consegne" è invece un arrivederci carico di cose non dette e tempo trascorso troppo velocemente...

Premio Oscar (2003) per la miglior fotografia (Conrad L. Hall).

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