L'illusione.

La grande illusione che uno bravo, come Bersani, sapeva tenere viva.

L'illusione che il mondo dei cantautori non fosse finito.

E invece lo è. E non sto parlando di un fenomeno di costume soltanto, ma di molto di più. Sto parlando di un linguaggio, del saper raccontare un mondo in tre minuti. Del chiudere una grande storia dentro una scatola piccolissima. E dell'avere, come cornice al quadro, il famoso "senso della canzone", ovvero quella sensibilità armonica che ti fa dire quello che devi dire con complessa semplicità, così da affascinare il letterato (l'intellettuale di merda di brunettiana memoria) quanto da lasciarsi cantare sotto la doccia da chiunque.

È un epoca finita. Quelli come me se ne devono fare una ragione.

Samuele Bersani, prima con "Giudizi Universali", poi con la folle ed inutile partecipazione sanremese con la perfetta "Replay" ed il suo bel contenitore ("L'Oroscopo Speciale") ci ha illuso più di chiunque altro.

Linguaggio colto ma non supponente, senso della canzone, bella voce, allegria romagnola mista a melanconia tenchiana.

Poi, dopo lo spartiacque della raccolta di successi, la normale deriva ("Caramella Smog" e "L'Aldiqua"). La passione per le costruzioni dissonanti o quasi. La perdita della struttura della canzone o, meglio, l'eccesso secchione della struttura della canzone. La ricerca spasmodica di quel "qualcosa da dire" che è nella realtà il passaggio più difficile per la sopravvivenza del cantautorato.

Una deriva colta, non c'è che dire. Niente di paragonabile alla fine di Dalla o Daniele, a quella "deriva bennatica" che ha reso impresentabili alcuni dei più grandi geni musicali nostrani dei settanta e degli ottanta.

Ma, purtroppo, neanche il passato di Bersani è paragonabile a quello di Dalla, Daniele o Bennato.

Considerando "Da Solo" di Capossela un altro segno di scollinamento colto, s'è costretti a trarne una conseguenza: i due che portavano avanti, apparentemente sviluppandolo, il discorso cantautorale classico, appunto Bersani e Capossela, hanno cominciato a mostrare la corda come un trucco da mago di campagna.

Non si può negare che anche in questo "Manifesto Abusivo" vi siano veri e propri lampi di grandezza e di bellezza pura. Ma sono nascosti dentro troppe architetture, troppi barocchismi. Nulla, qui dentro, si lascia memorizzare dopo il primo ascolto. Ma neppure dopo il secondo, o il terzo.

E l'impressione iniziale viene drammaticamente confermata.

Alla fin fine non è canzone classica. Non è "scomposizione" della canzone (Waits di là e Capossela di qua, nel campo, han fatto molto di più e di meglio), non è cantautorato puro, o almeno non lo è più secondo l'accezione tradizionale.

E allora cos'è? Difficile dirlo, e purtroppo è ben difficile dirsene interessati.

L'unico vero pregio è che dentro i dischi di Bersani non c'è traccia di paraculismo, di occhieggiamento ai giovinastri, merce facile facile e mezzuccio abusato anche da alcuni degli ex grandi.

Ma il problema aperto è questo: ha dato e fatto abbastanza, Bersani, per essere dichiarato un grande, o un ex grande? È brutto porsi, da musicofili, le stesse domande del PD....(freddura spero perdonabile).

Comunque, tornando al disco, è inutile dire che è scritto oggettivamente bene, con una carenza d'anima che è reato per un romagnolo. Il tutto suonato e confezionato benissimo (ma trovatemi, oggi, un prodotto esteticamente men che perfetto...).

Dylan morirà con un sacco di figli, amici miei, ma evidentemente nessun nipote.

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