La bassa fedeltà è un bel ricordo. I Sebadoh una delle infinite possibilità in cui inciampare prima o poi. Tra quei gruppi che registri mentalmente e poi perdi all'istante, che non cerchi ma che tanto prima o poi "t'arrivano".
"C’è Gigi?"
"No."
"Ma siamo i Sebadoh."
"Ah, ok. Venite su."

Partoriti all'inizio degli anni '90 dall'ego smodatamente musicomane di un Lou Barlow capace di scazzare con J Mascis, farsi cacciare dai Dinosaur Jr e pretendere d'averla comunque vinta (vedi il successo commerciale dei paralleli Folk Implosion, dieci anni dopo), i Sebadoh sfornano una quantità sconsiderata di buoni dischi (con menzione d'onore almeno per "Bakesale" e "Harmacy") affermandosi come trasandati rappresentanti dell'indie rock tout court. Passano un tot di anni ed il nuovo secolo è alle porte.

Pausa. Stop. Play.

Abbandonato il morbido esistenzialismo in rima baciata così come il gusto per le registrazioni lo-fi, qui i Sebadoh danno fondo all'aspetto più genuinamente svagato ed immediato della loro musica. Come se avessero improvvisamente bisogno di scuotersi con qualcosa di semplice e gratificante. Una birra ghiacciata nella serata più divertente della settimana. Del sano sesso con la tipa della copisteria. Quel che importa è non fermarsi. Allora le forme del pop vanno scombinate da una rinnovata vena elettrica ed incastonate in un eccezionale songwriting dal retrogusto punk: chitarre sporche e tese, ronzii d'amplificatori, dissonanze elettroniche, saturazioni di frequenze in megahertz e soprattutto una sezione ritmica tonda come un cuscinetto d'acciaio. Ed è così che il bassista Jason Loewenstein, da scomodo ruolo di comprimario si ritrova a mettere mano alla metà dei brani e per i critici è come se c'avessero la scabbia. "Deludente ritorno omonimo" spareranno le riviste specializzate. In realtà il ragazzo fustiga le sue quattro corde come una forza della natura e fornisce per la prima volta un perfetto contraltare al genio depresso di Lou Barlow. Ne esce fuori un mix accattivante a metà tra il cazzone ed il riflessivo: Husker Du e Pavement remixati da Steve Albini. Il tiro è alto, il disco pieno di potenziali hit appena sopra i tre minuti. Ed un trittico spaventoso nel centro del cuore: "Nick Of Time", "Flame" (whoa!!!) e "So Long" bruciano veloci e lasciano il segno nelle corde vocali. Il tono della registrazione è pulito, corposo e mette in evidenza il grande pregio dei Sebadoh: l'innata capacità di utilizzare tre accordi con straordinario senso melodico facendo pure tremare le pareti della sala prove. L'abilità trasversale di screziare il loro personalissimo rock con staffilate ben camuffate di post-punk, folk e grunge. 

Un solo difetto: collocato nel suo tempo (corre l'anno 1999) questo disco perde gran parte del suo fascino perché ormai superato a destra ed in tripla corsia.
Ma tiene comunque i suoi 130 chilometri orari e puoi star certo che prima o poi arriva.

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