Sembra di vedere un film di Caligari, o di tanti altri bravi registi che sanno raccontare le «genti meccaniche e di piccolo affare», ma senza la profondità necessaria; dando spazio al comico grottesco ma come sollievo ai drammi, più che come amplificazione o controcanto filosofeggiante. Basterebbe guardare il recente e bellissimo Non essere cattivo per capire quanto sia superficiale e distante questo Fortunata di Castellitto.

Qualcosa di buono c’è: Jasmine Trinca sicuramente è una grandissima protagonista, Accorsi sa il fatto suo, Alessandro Borghi è bravissimo e qui si conferma. La resa drammatica delle scene è anche buona, ciò che non è particolarmente stringente è la consequenzialità, gli intrecci di significato, il senso dei passaggi e delle scelte. Alla fine resta un discorso generico sulle miserie di tanti, ma senza una chiave di lettura particolarmente interessante.

Potrebbe esserci un messaggio legato alla necessità di aspettare con pazienza il colpo di fortuna, perché può sempre arrivare; anzi, appena ti arrendi arriva e tu non sei più lì ad aspettarlo. Ma è un’elucubrazione troppo obliqua e mal suggerita. In generale, l’idea è che queste persone si arrendono prima del tempo, sono loro stessi a decretare le loro sconfitte. Ma non si trova un grande costrutto che porti a questo esito: la trama vive di spunti estemporanei, spaventi, litigate, piccole gioie, commiserazioni notturne.

Sono dei drammi standardizzati quelli presentati qui da Mazzantini e Castellitto. Drammi tanto per raccontare qualcosa, ma senza dei veri contenuti convincenti. Prendete un La pazza gioia per capire cosa significa dare contenuti a storie di umana miseria. Qui è tutto un generico papà che si drogava, marito che ti tratta male, amico drogato con mamma che vaneggia. Sono spunti senza vere storie dietro.

Gli stessi personaggi sono un po’ abbozzati, più convincenti come resa attoriale che come completezza a tutto tondo. Emblematico in questo senso il marito di Fortunata: poteva essere una bella contraddizione in termini, e in certi passaggi emerge la sua fragilità, ma poi si ritorna presto all’aggressività più scontata. Un po’ meglio lo psicologo Accorsi, che vede le situazioni di questi umili da una posizione esterna, alternando comprensione, aiuti, e sfuriate. È interessante perché unico personaggio ad andare oltre i suoi limiti, che invece gli altri si auto-impongono.

La tonalità del film è uno degli aspetti più critici: la goliardia e la leggerezza sembrano essere utilizzati per svicolare dai drammi, per alleggerire. Non c’è quindi la vera volontà di esplorare una condizione umana, è un gioco estetizzante. Un grande sceneggiatore e un grande regista avrebbero invece usato quella stessa leggerezza romanesca per individuare in filigrana la contraddizione insita in questa condizione umana. Ma ci vuole ben altra classe per riuscirci. Anche il montaggio e le musiche tendono a smorzare, a svisare subito come per timore di essere andati troppo sul pesante: si salta alla scena successiva, magari con un ritornello rock a tutta birra. Scelte decisamente discutibili.

5.5/10

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