1968: inizia per Sergio Leone un calvario chiamato "C'era una volta in America".

L'ambizioso affresco sulla realtà della mafia ebraica a New York troverà qualche finanziatore solo 12 anni dopo: Globus e Golan metteranno i soldi e però taglieranno un bel po' di pellicola, rendendo il film, di per sè complesso, indecifrabile.

L'ansia di gigantismo del regista trovò un parziale sfogo nel racconto degli ultimi giorni del West; ovviamente le pressioni di fare un quarto film di duelli e cavalli erano fortissime visto che grazie a questi Leone rimpinguava le casse dei botteghini. E così non restò altro che mettere nel cassetto il sogno di una vita (e "C'era una volta in America" racconterà del sogno di una vita, infatti) e rispolverare le Colt. Alla grande però. 12 anni dopo, nello splendido finale di "C'era una volta in America", la cinepresa spierà il beato sorriso all'oppio di Noodles allo stesso modo con cui verrà spiata la delusione di Jill alla ricerca del segreto del matto marito irlandese (Frank Wolff).

Per "C'era una volta il west" Leone pretese e ottenne il massimo sfarzo. Non si dovevano vedere le brulle pianure d'Almeria ma le cime della Monument Valley (la cattedrale di Padre John Ford e i suoi confratelli; la sua sabbia rossa trasportata a Roma a tonnellate per legare gli interni girati a Cinecittà, come figure umane gli Statunitensi e non i messicani sombrerati). I set naturali furono Arizona e Utah, e una briciola di Sardegna. Vennero ricostriute intere città chiodo per chiodo uguali a quelle vere; per i costumi, Carlo Simi non dovette più rovistare tra i saldi della Western Costume ma farsi trovare il meglio che si poteva. Il treno su cui Morton si muove è di un decòr di precisione viscontiana. La musica di Enio Morricone tralascia le asprezze beat/contemporanee (a parte il tema di Armonica) e si apre in ouvertoures di stampo wagneriano. Questo film è un melodramma, infatti.

E il cast.

Tutte stelle di prima grandezza e un semisconosciuto dalla faccia giusta: Charles Buchinski, in arte Bronson che divenne una star proprio con questo film, interpretando Armonica, melanconica e pietrosa variante dello straniero eastwoodiano. Per ognuna di esse Leone fece realizzare una serie di flani a grandezza elefante con il loro volto.
Le celebrità furono Claudia Cardinale, stupenda più che mai e incarnante Jill, la Puttana e la Matriarca; Jason Robards jr., grande attore versatile e misurato (vedetelo anche su Cable Hogue di Sam Pechinpah, un film che in maniera diversa racconta un po' la stessa storia) nel ruolo di Cheyenne, il Bandito; Gabriele Ferzetti, Morton è, l'Imprenditore, l'uomo che con le sue rotaie stese dall'Atlantico al Pacifico e con i suoi nuovi sistemi, sta uccidendo il West degli Uomini Veri.
E soprattutto Henry Fonda, l'Attore Americano, il Buono, il Presidente democratico, a interpretare Frank, il freddo Killer al soldo di Morton, affascinato dai nuovi mezzi ma in conflitto con essi. La sua esuberante salute fisica lotta contro la tubercolosi ossea del magnate dei treni. Toccherà scoprire che c'è un potere più forte della propria carne e che, nonostante la morte di Morton, le cose non possono più fermarsi.

Fonda, quando raggiunse il set, si presentò con barba e lenti a contatto nere (gli occhi azzurri di Fonda sono il simbolo dell' Onestà Americana); Leone, pian piano, gli fece scoprire il volto e l'attore capì che più che Frank era Fonda a dover choccare gli spettatori con la sua ferocia (uccide un bambino a inizio film...). Non era la prima volta che l'interprete ricopriva un ruolo ambiguo; vedi l'imbecille generale de "Il massacro di Fort Apache" o l'ambiguo pistolero dalle Colt d'oro dell'importante "Ultima notte a Warlock" ma nessuno aveva avuto il coraggio di presentare il Buono per eccellenza in una luce così perversa e irredimibile.

Ciò appare evidente nella scena finale: Frank viene ucciso nel duello, poi Armonica se ne va, rifiutando il sorriso di Jill. Lui sa che nonostante il cattivo imprenditore e il suo braccio armato siano morti, non per questo la modernità si può fermare. Tocca ad una sana Jill il compito di portare avanti quelle rotaie, abbeverare gli operai, ricevere qualche pacca sul sedere (come suggerisce Cheyenne).

Nella storia si sa che le cose non filarono così lisce; quanti saranno stati i Morton che, incuranti della trasformazione anche drammatica, irrimediabile di un Paese, hanno mietuto soldi e potere?

Quest'epica antimoderna di Sergio Leone presenta, ingranditi, i pregi e i limiti dell'autore: abbiamo le scene madri realizzate con grandissima maestria (l'attesa alla stazione dei tre killers, Elam, Mulloch e Strode) la scena d'amore tra Frank e Jill, la caccia al killer nella città in costruzione, e soprattutto, il duello finale, magnifico, dove è intersecato il celebre flashback completo con lo showdown tra i due.
I difetti sono nelle parti di raccordo: anche nella versione restaurata (grazie a clavie Salizzato) lo sviluppo della storia, scritta a quattro mani dai giovani Dario Argento e Bernardo Bertolucci, l'andamento è asmatico e farragginoso.

Le facce degli attori secondari peraltro debilitano la pellicola che vorrebbe essere (e spesso è) di altissima classe ed elevata melodrammaticità. Aldo Sambrel che segue Cheyenne catturato dallo sceriffo (Keenan Wynn) o la scena del vecchietto a cui viene schiacciato il naso quando cerca di puntare per i terreni di Jill, per esempio, fanno di leone un vorrei ma non posso. Il suo vecchio maestro, Luchino Visconti al cui spirito "C'era una volta il west" si avvicina, non avrebbe mai commesso questi errori, curando il grande e il dettaglio allo stesso modo.

La retorica messa in bocca agli Ultimi Uomini, se da un lato ha battute memorabili, per il resto è davvero ingenua e suona come una nenia alla Mark Knopfler (amante di questo film, non a caso).

Ci sono tre finali, bellissimi presi uno ad uno ma troppi anche per un superfilm come questo (all'epoca uscì con 4 tempi e tre intervalli).

Leone è un bambino che sogna alla grande, come si poteva sognare una volta, leggendo Sandokan e andando a vedere i cowboy al cinema parrocchiale. Nella foga di vivere con la fantasia grandi scene, si saltano a piè pari le incongriuenze. Ma: questa voglia di sognare, quest'idea di un cinema grande, più grande della vita, fanno passare in secondo piano le mie critiche.
Sì, oggi non ci sono più tanti soldi ma neanche il desiderio di riempire gli occhi dello spettatore; ci si assesta sul minimalismo-maxibon e si crede di aver fatto un capolavoro. Siamo depressi e il titanismo leoniano ci manca tanto. Tornatore non ce l'ha fatta a rinverdirlo ma perlomeno ha fatto vedere che volendo i soldi si trovano.

C'era una volta il cinema italiano?

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