Ritorno nelle macerie di un passato mai spento, riprendo in mano il solito veleno, una mistura radioattiva che tramortisce i sensi, intensifica il dolore interiore, spegne le speranze. Un travagliato trascorrere di giorni inutili, consumati nell’anonimato di una sofferenza sempre presente, insistente, devastante, corrosiva.
Il declino dell’anima e della voglia di vivere ben si sposa con questo dischetto uscito ormai nel lontano 1995, ri-assemblato con grande maestria dal superbo Rave, manipolatore elettronico dall’indubbio talento tecnico. Ritorno con un morbo antico che continua ad assillare e a consumare le mie giornate agonizzanti, perse nel buio di una realtà senza forma, insipida, ispida e violenta, fottutamente molesta e priva di cali di tensione.

The Process rappresenta l’ultimo grido malsano dell’epopea puppyana, quella plasmata dalle malate intuizioni industrial/tecnologiche del genio sregolato qual era Dwayne Goettel, un collante perfetto tra la minuziosa perizia tecnica del polistrumentista Cevin Key e le visioni apocalittiche del cantante Nivek Ogre, denunce pessimistiche di una realtà crudele che sembrano voler decretare l’inevitabile declino del genere umano.
Quest’album esce miracolosamente dalle ceneri di una band ormai allo sfascio, minata da incompatibilità interne e irrimediabilmente recisa dalla morte per overdose di Dwayne. Il cucciolo malnutrito si perde ancora una volta nelle fosche lande dell’angoscia, pervaso da un insistente sentore di pericolo cercando disperatamente un posto sicuro dove poter esalare finalmente in pace, il suo ultimo respiro. Jahya è un tremebondo accavallarsi di corpi scarnificati, putrefatti, devastati da micidiali scariche elettriche, disorientanti avvicendamenti di suoni elettronici impazziti, chitarre metal in primo piano a scandire il maligno sermone recitato da un’abominevole voce che sembra provenire dall’oltretomba. Classico inizio in puro stile Skinny Puppy che sembra seguire le solite coordinate di una musica spiazzante e senza un chiaro filo logico, ma questa volta la storia è diversa, le canzoni sono ben definite, il risultato è meno ostico del previsto. Death rivela subito i nuovi cambiamenti, le collaborazioni di Ogre con Revolting Cocks e Ministry si fanno prepotentemente sentire, chitarre metal che costantemente si accoppiano con i ritmi marziali dell’ebm, atmosfere dark da scenario post atomico.

Ed ecco che arriva quello che non ti aspetti, Candle una sorta di ballata per i sopravvissuti all’olocausto nucleare, per la prima volta in oltre dieci anni di attività si sente la voce di Nivek pulita, senza distorsore, melodica e quasi intimistica nelle strofe, esasperata nei ritornelli, sostenuta in apertura da chitarra acustica, archi funerei che degenerarano poi nei soliti delirii techno cibernetici.
Tutta l’opera si muove su queste traiettorie, sintesi perfetta di una strabiliante carriera, testamento finale di una delle più influenti band elettroniche degli ultimi vent’anni.
Nel 2004 però il ritorno alle scene con i due superstiti Nivek e Cevin per un album discreto, professionale, accessibile, danzereccio e ricco di motivetti orecchiabili, una nuova veste insomma che potrà piacere anche a chi non ama queste sonorità orrorifiche, lontano anni luce dall’ineguagliabile creatività bizzarra dei lavori precedenti.

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