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Bene o male queste sono le fette di vita che si succedono nella storia di Johnny Marco (Dorff), star hollywoodiana svuotata da eccessi e successi. Per lui, la Coppola ha edificato la consueta prigione dorata (come per i protagonisti di Lost in translation e Marie Antoniette): un noto hotel di Los Angeles infestato di parassiti genere finto snob fricchettone e starlette in cerca di guadagno a colpi di nudo. Ben presto questa situazione che il normale cristiano sogna, diventa una lastra di ghiaccio per il protagonista che letteralmente si addormenta davanti a giovanotte dalle forme mozzafiato o fan in cerca di comprensione. Marco ha un grande problema, non comunica. Vive per inerzia, in attesa di eventi che non fanno altro che procurargli altri soldi, altri lussi, altre fighe. Un circolo vizioso e ingovernabile, ben sintetizzato dalla scena iniziale a camera fissa: il nostro gira a vuoto in un cerchio d’asfalto sulla sua Ferrari nera.

A rompere quest’apatia angosciante, dove tutto ciò che si muove è freddezza umana, è quel fiammiferino della piccola figlia, Cleo (Elle Fanning), che entra in scena in punta di piedi e, facendo cose normali, restituisce al papà un minimo di calore umano. Come Murray e la Johannson in Lost in translation, anche Dorff e la Fanning sembrano costruire un rapporto fondato su affinità elettive e piccole cose: la colazione preparata da lei, un bagno in una lussuriosa piscina della suite al Duca d’Aosta procurato da lui, unica situazione in cui sembrano sguazzare bene.

Le poche parole che scambiano sono sufficienti a creare un minimo senso di agio e affetto: Marco pronuncia frasi di senso compiuto praticamente solo con la figlia, nonostante sia evidente la sua totale impreparazione al ruolo di padre, e il biascicare banalità comunque ben accette dalla figlia, bisognosa di riguardi anche lei. Per il resto delle vicende che lo vedono protagonista, o vive di silenzi, o sembra esser preso alla sprovvista dalle affermazioni altrui, come se fosse perennemente narcotizzato. Le sue sono risposte o smorfie di quelle che si devono fare.

Questi piccoli momenti intimi, si interrompono quando Cleo deve partire per il campo estivo. Per lei emerge il dolore del distacco perenne dei e dai genitori. Johnny e la moglie sono separati e pieni di impegni. Marco reagisce scusandosi e, nell’ultima scena dal patetico valore simbolico, sfanculando tutto.

Il film è questo.

Cosa funziona?

Somewhere è un film shoegaze (come tutti quelli della regista in questione): rarefatto e personale, offre attimi vissuti dal protagonista raccontati in maniera piuttosto realistica e voyeur. Mi viene da pensare ad una scena – camera fissa – con Marco ripreso a fumare e bere sovrappensiero. Interpretazione naturale del ruolo, da parte di Dorff, in ogni frangente. Lo stesso si può dire per la giovanissima Fanning, il solito musetto biondo slavato tanto caro alla Coppola. La narrazione, fondata quasi esclusivamente su scene a camera fissa o piani sequenza, rende benissimo l’idea della fragilità delle vite dei protagonisti: gli ambienti chiusi, illuminati da luci interessanti che ingialliscono il racconto, sembrano il posto ideale per lo svolgimento di questo tipo di storia. All’aperto, la cruda essenzialità degli incroci e delle grandi vie di comunicazione californiane svolgono un ottimo lavoro al fine di inserire due perfetti intrusi in un quotidiano arso dal sole, un po’ sullo stile del primo Spielberg in The Duel. Nel complesso, le scene che finiscono su pellicola sono tutte piccole vicende che hanno la forza dei ricordi lucidi di un sogno. La colonna sonora (in particolare le sigle) rende più solida questa struttura narrativa fondata essenzialmente su un impianto minimale, in cui questi dettagli fanno la differenza, applicati come sono a slice of life di pura quotidianità, in molti casi. L’atmosfera complessiva è quella che si respira ascoltando, che so, alcuni pezzi dei My Bloody Valentine. Ecco, vengono messe in scena le resistenze di esseri umani che in maniera compassionevole non vogliono cedere definitivamente alla solitudine e allo straniamento.

Cosa non funziona?

Il tema. Perché è il solito tema. Cambiando personaggi e situazioni, i contenuti sono sempre quelli degli altri film. Cito di nuovo le pellicole a me più care che sono Lost in translation e Marie Antoniette. Parlavo di prigioni dorate, di sfarzo che condanna all’isolamento, di ricerca di un contatto umano a tutti i costi, di affinità elettive. Situazione sempre risolta con un quasi. Insomma, c’è, alla fine, il solito accontentarsi di aver potuto trarre il massimo – anche se non tutto - da quella persona su un miliardo: la persona giusta. Il gustare ciò che si è potuto avere, quella serie di attimi che andranno via lasciando qualcosa dentro ai protagonisti.

Il finale. Da discount del cinema e sinceramente evitabile. Il finale migliore sarebbe stato la scena iniziale.

Le comparse. Da Del Toro alla pompatissima Ventura, era tutto dannatamente evitabile. Bastava sacrificare questi cinque minuti totali che la storia avrebbe avuto più credibilità. Paradossalmente, la presenza di questi personaggi, rende poco reale e interessante la vicenda di Marco e figlia. Questione di soldi, vabbè.

E quindi?

Un film d’autore; un ‘intensità, quella trasmessa dalla Coppola, che io raccolgo sempre; un’atmosfera complessiva che si fa gustare per la sua tenerezza spacciata, per la sua crudeltà, in un certo senso (i protagonisti sono condannati a vivere una vita che non vorrebbero); una disillusione di fondo che ben esprime l’angoscia globalizzata; l’importanza del singolo individuo, dell’essere umano, chiunque esso sia.

Un film un po’ come gli altri della regista, che offre perle di ottimo cinema su un canovaccio che ha un po’ rotto il cazzo. Ecco, se ne apprezzano più l’estetica e il mood, che il contenuto. Avrebbe potuto scegliere qualsiasi altro lack of communication, ma siamo alle solite. Manca la freschezza per un definitivo salto di qualità, già mancato con Lost in translation, profondo e verace, ma pieno di ingenuità.

Transizione?

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