Deve essere stata una bella soddisfazione per Don Anderson, chitarrista degli Agalloch (fra gli esponenti più illustri della nuova ondata di black-metal band americane), figurare nella line-up che sta dietro all'ultimo parto discografico dei leggendari Sol Invictus. Mi ricordo quando gli Agalloch coverizzavano “Kneel to the Cross” (erano i tempi di “Of Stone, Wind and Pillow), brano poi riproposto di frequente dal vivo. Un sogno che finalmente si realizza, considerato che la creatura di Tony Wakeford è da sempre indicata fra le influenze fondamentali per la genesi dell'Agalloch-sound.
Non esattamente una soddisfazione, però, deve essere stata l'aver contribuito alla gestazione dell'album più insipido che i Sol Invictus abbiano dato alle stampe nell'ultimo decennio. Non per colpa del buon Anderson, ovviamente, visto che il suo contributo è di sostanza (la sua presenza si registra in tutti i brani) e che l'integrazione fra le sue chitarre elettriche e le trame acustiche tipiche dell’oramai consueto folk apocalittico del Sole Invitto funziona e rimane una delle scelte più riuscite di “Once upon a Time”.
Del resto l'elettricità non è una novità assoluta in casa Sol Invictus (basti pensare al basso distorto di Karl Blake, presente in formazione fin dagli esordi), e quindi parlare di stravolgimento stilistico vero e proprio è assolutamente fuori luogo. Ma non solo: sebbene Wakeford ami oggi definire la propria musica “folk-prog”, l'impostazione rimane la medesima degli ultimi album, con il verbo industriale messo definitivamente a tacere, e l’impiego di sonorità maggiormente legate alla tradizione, sia essa resa sotto forma di un folk ancestrale dominato da strumenti acustici, sia essa quella di un folk-rock fotografato nella sua forma più classica, squisitamente recuperato dagli anni sessanta/settanta. Quindi le chitarre sporcano l'assetto acustico, da sempre a carico del menestrello Wakeford e dall'ensemble che gli sta alle spalle, ed imprimono acidità e vigore alle nuove composizioni. Più in là però non si va, e di prog, invero, ce n'è veramente poco (a parte qualche traccia del bucolico Canterbury-sound, o l'eco dei balletti di un Ian Anderson con i suoi Jethro Tull): l'assenza di variazioni ritmiche degne di nota e la brevità dei brani, del resto, precludono fin da principio la possibilità di sviluppi realmente complessi: una via, in ogni caso, impraticabile per musicisti dalla modesta preparazione tecnica.
Se “Once upon a Time” suona così “ordinario”, la colpa è anche di una compagine di attori non proprio eccelsi, non in grado di andare oltre il compitino assegnato: più o meno quella combriccola di personaggi che Wakeford si porta dietro da qualche anno a questa parte (Caroline Jago al basso, Lesley Malone alle percussioni, Renee Rosen al violino ecc.). Con la pesantissima assenza di quel geniaccio visionario di Andrew King, che aveva saputo iniettare linfa vitale all'arte di Wakeford, il quale, si sa, fa e per sempre farà il buono e il cattivo tempo in ogni album dei Sol Invictus. Ed è qui, ovviamente, che debbono essere individuate le maggiori responsabilità.
“Once upon a Time” soffre infatti di un'ispirazione altalenante, ponendosi come battuta di arresto in un percorso virtuoso in cui Wakeford era riuscito ad incanalare la sua carriera negli ultimi due lustri. Volendo fare un veloce paragone con i lavori immediatamente precedenti, possiamo dire che i Sol Invictus del 2014 non possiedono né la classe e l'eleganza sfoggiate nel raffinato “The Devil's Steed” (2004), né l'irruenza e la spregiudicatezza espresse in “The Cruellest Month (2011).
Eppure l'introduzione “MDCLXVI” - “The Devil's Year”, scossa dal fragore nero di una rude chitarra elettrica di vaga derivazione post-black-metal, faceva presagire grandi cose: entusiasmo che si spegnerà mano a mano che i brani si daranno il cambio (nove ballate in tipico stile Sol Invictus, intervallate da ben sei tracce strumentali, poco più che brevi interludi che non aggiungono sale ad una pietanza di per sé poco saporita). “Once upon a Time” non è dunque un brutto album: semplicemente è privo di intensità e povero di episodi che lascino davvero il segno (non ci imbatteremo, questa volta, in una “We are the Dead Men”, o in una “To Kill All Kings”, o in una “The Blackleg Miner”).
Spiccano a mio parere due soli brani. “The Path Less Travelled”, che non introduce comunque niente di nuovo, è una nebbiosa ballata avvolta dalle fosche armonie tessute dalle chitarre elettriche: essa ci consegna il Wakeford più autorevole, nonché stralci dell'inossidabile Wakeford-pensiero (“Between the banker and the beggar, between the spires and the fire, between the winner and the sinner, take the path less travelled”, recita il cupo ritornello). “War”, scritta a quattro mani con il musicista americano Peter Blegvad, è il brano più particolare, quello più duro per certi aspetti, aperto da un solenne botta-e-risposta a due voci (che ricorda non poco i mitici duetti fra Wakeford e Ian Read ad inizio carriera) e concluso all'insegna di un'accelerazione ritmica che sfiora lidi post-punk: peccato che il tutto si esaurisca sul più bello e la brevità del brano (che non raggiunge i quattro minuti) comprometta la buona riuscita dell’esperimento. Altro motivo di rammarico: l'idea di cosa sarebbe stato il risultato con l'apporto prezioso della voce teatrale di Andrew King.
Nota di demerito invece è il terribile singolo “Mr Cruel”, a mio parere uno dei brani più molesti mai scritti da Wakeford; il suo andamento bislacco ci riporta ai tempi non felici di “Thrones”, facendocelo persino rimpiangere: non è altro che l’ennesimo tentativo, questa volta non riuscito, di giocare a ricreare ambientazioni degne di una gothic-novel.
Per il resto siamo nella norma: brani come “The Devil on Tuesday” e la title-track mostrano il lato più vivace e dinamico del corso attuale (fra intrecci di flauto e violino, e il solito imperversare di Anderson alle sei corde, è qui che ci avviciniamo secondo me a ciò che secondo Wakeford si deve intendere con l'etichetta folk-prog). Essi fanno da contraltare alla gradevolezza di episodi come la sorniona “The Devil's Year” (la più dolce con i suoi archi carezzevoli, a scapito di un titolo che potrebbe far ben pensare ad altri umori) e l'impetuosa “Our Father”, altra ballata dall'incedere maestoso. Con la strumentale “Austin” e il suo reprise “Spare”, a cui è affidata la chiusura dell'album, agli estimatori di vecchia data potrà scendere la famosa lacrimuccia, in quanto l'arpeggio su cui si reggono le due tracce cita palesemente un ultra-classico come “Media”, ma senza ovviamente bissarne la portata.
Se quindi Wakeford, da sempre sospeso fra eccellenza e mediocrità, anche questa volta riesce a collocarsi abbondantemente al di sopra della sufficienza piena e quindi soddisfare i propri fan (impresa non da dare per scontata, tenuto conto che fra quattro anni i Sol Invictus spegneranno la loro trentesima candelina), non raggiunge con "Once upon a Time" i buoni livelli su cui si erano assestate le sue prove più recenti. Per il futuro gli consigliamo, quindi, di fare un passo indietro, lavorare dietro le quinte e ricoprire il ruolo a lui più consono, ossia quello del regista. Ma soprattutto di circondarsi di collaboratori capaci e dal forte carisma che possano ovviare a fisiologici cali di ispirazione dovuti all'età.
Siamo fiduciosi.
Non esattamente una soddisfazione, però, deve essere stata l'aver contribuito alla gestazione dell'album più insipido che i Sol Invictus abbiano dato alle stampe nell'ultimo decennio. Non per colpa del buon Anderson, ovviamente, visto che il suo contributo è di sostanza (la sua presenza si registra in tutti i brani) e che l'integrazione fra le sue chitarre elettriche e le trame acustiche tipiche dell’oramai consueto folk apocalittico del Sole Invitto funziona e rimane una delle scelte più riuscite di “Once upon a Time”.
Del resto l'elettricità non è una novità assoluta in casa Sol Invictus (basti pensare al basso distorto di Karl Blake, presente in formazione fin dagli esordi), e quindi parlare di stravolgimento stilistico vero e proprio è assolutamente fuori luogo. Ma non solo: sebbene Wakeford ami oggi definire la propria musica “folk-prog”, l'impostazione rimane la medesima degli ultimi album, con il verbo industriale messo definitivamente a tacere, e l’impiego di sonorità maggiormente legate alla tradizione, sia essa resa sotto forma di un folk ancestrale dominato da strumenti acustici, sia essa quella di un folk-rock fotografato nella sua forma più classica, squisitamente recuperato dagli anni sessanta/settanta. Quindi le chitarre sporcano l'assetto acustico, da sempre a carico del menestrello Wakeford e dall'ensemble che gli sta alle spalle, ed imprimono acidità e vigore alle nuove composizioni. Più in là però non si va, e di prog, invero, ce n'è veramente poco (a parte qualche traccia del bucolico Canterbury-sound, o l'eco dei balletti di un Ian Anderson con i suoi Jethro Tull): l'assenza di variazioni ritmiche degne di nota e la brevità dei brani, del resto, precludono fin da principio la possibilità di sviluppi realmente complessi: una via, in ogni caso, impraticabile per musicisti dalla modesta preparazione tecnica.
Se “Once upon a Time” suona così “ordinario”, la colpa è anche di una compagine di attori non proprio eccelsi, non in grado di andare oltre il compitino assegnato: più o meno quella combriccola di personaggi che Wakeford si porta dietro da qualche anno a questa parte (Caroline Jago al basso, Lesley Malone alle percussioni, Renee Rosen al violino ecc.). Con la pesantissima assenza di quel geniaccio visionario di Andrew King, che aveva saputo iniettare linfa vitale all'arte di Wakeford, il quale, si sa, fa e per sempre farà il buono e il cattivo tempo in ogni album dei Sol Invictus. Ed è qui, ovviamente, che debbono essere individuate le maggiori responsabilità.
“Once upon a Time” soffre infatti di un'ispirazione altalenante, ponendosi come battuta di arresto in un percorso virtuoso in cui Wakeford era riuscito ad incanalare la sua carriera negli ultimi due lustri. Volendo fare un veloce paragone con i lavori immediatamente precedenti, possiamo dire che i Sol Invictus del 2014 non possiedono né la classe e l'eleganza sfoggiate nel raffinato “The Devil's Steed” (2004), né l'irruenza e la spregiudicatezza espresse in “The Cruellest Month (2011).
Eppure l'introduzione “MDCLXVI” - “The Devil's Year”, scossa dal fragore nero di una rude chitarra elettrica di vaga derivazione post-black-metal, faceva presagire grandi cose: entusiasmo che si spegnerà mano a mano che i brani si daranno il cambio (nove ballate in tipico stile Sol Invictus, intervallate da ben sei tracce strumentali, poco più che brevi interludi che non aggiungono sale ad una pietanza di per sé poco saporita). “Once upon a Time” non è dunque un brutto album: semplicemente è privo di intensità e povero di episodi che lascino davvero il segno (non ci imbatteremo, questa volta, in una “We are the Dead Men”, o in una “To Kill All Kings”, o in una “The Blackleg Miner”).
Spiccano a mio parere due soli brani. “The Path Less Travelled”, che non introduce comunque niente di nuovo, è una nebbiosa ballata avvolta dalle fosche armonie tessute dalle chitarre elettriche: essa ci consegna il Wakeford più autorevole, nonché stralci dell'inossidabile Wakeford-pensiero (“Between the banker and the beggar, between the spires and the fire, between the winner and the sinner, take the path less travelled”, recita il cupo ritornello). “War”, scritta a quattro mani con il musicista americano Peter Blegvad, è il brano più particolare, quello più duro per certi aspetti, aperto da un solenne botta-e-risposta a due voci (che ricorda non poco i mitici duetti fra Wakeford e Ian Read ad inizio carriera) e concluso all'insegna di un'accelerazione ritmica che sfiora lidi post-punk: peccato che il tutto si esaurisca sul più bello e la brevità del brano (che non raggiunge i quattro minuti) comprometta la buona riuscita dell’esperimento. Altro motivo di rammarico: l'idea di cosa sarebbe stato il risultato con l'apporto prezioso della voce teatrale di Andrew King.
Nota di demerito invece è il terribile singolo “Mr Cruel”, a mio parere uno dei brani più molesti mai scritti da Wakeford; il suo andamento bislacco ci riporta ai tempi non felici di “Thrones”, facendocelo persino rimpiangere: non è altro che l’ennesimo tentativo, questa volta non riuscito, di giocare a ricreare ambientazioni degne di una gothic-novel.
Per il resto siamo nella norma: brani come “The Devil on Tuesday” e la title-track mostrano il lato più vivace e dinamico del corso attuale (fra intrecci di flauto e violino, e il solito imperversare di Anderson alle sei corde, è qui che ci avviciniamo secondo me a ciò che secondo Wakeford si deve intendere con l'etichetta folk-prog). Essi fanno da contraltare alla gradevolezza di episodi come la sorniona “The Devil's Year” (la più dolce con i suoi archi carezzevoli, a scapito di un titolo che potrebbe far ben pensare ad altri umori) e l'impetuosa “Our Father”, altra ballata dall'incedere maestoso. Con la strumentale “Austin” e il suo reprise “Spare”, a cui è affidata la chiusura dell'album, agli estimatori di vecchia data potrà scendere la famosa lacrimuccia, in quanto l'arpeggio su cui si reggono le due tracce cita palesemente un ultra-classico come “Media”, ma senza ovviamente bissarne la portata.
Se quindi Wakeford, da sempre sospeso fra eccellenza e mediocrità, anche questa volta riesce a collocarsi abbondantemente al di sopra della sufficienza piena e quindi soddisfare i propri fan (impresa non da dare per scontata, tenuto conto che fra quattro anni i Sol Invictus spegneranno la loro trentesima candelina), non raggiunge con "Once upon a Time" i buoni livelli su cui si erano assestate le sue prove più recenti. Per il futuro gli consigliamo, quindi, di fare un passo indietro, lavorare dietro le quinte e ricoprire il ruolo a lui più consono, ossia quello del regista. Ma soprattutto di circondarsi di collaboratori capaci e dal forte carisma che possano ovviare a fisiologici cali di ispirazione dovuti all'età.
Siamo fiduciosi.
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