Ah, il Jazz di quegli anni. Quegli anni in cui si doveva "provare". Quegli anni in cui delle etichette e dei generi importava poco o nulla, quegli anni in cui si mescolava tutto e tutto si sperimentava, perché bisognava cambiare il mondo, o meglio... cambiare il mondo partendo dalla musica. Eh si, d'altra parte il mio ex professore di Università Vincenzo Caporaletti (proprio lui, l'ex chitarrista dei Pierrot Lunaire, per chi li ricorda) mi parlò per primo di 'sto fatto: in quegli anni guardavamo tutti a Hendrix, diceva lui, Hendrix era Dio, Hendrix era tutto, Hendrix era principio e fine di ogni cosa; e tutti si cercava di imitarlo, di studiarlo, di spulciare fra i suoi segreti come chi indaga l'ignoto, come chi intraprende una strada senza conoscerne l'esatta destinazione. Tutti, indistintamente; e anche quelli che mai si sarebbe immaginato potessero flirtare col Rock e la sua prassi esecutiva, i jazzisti.

E in quegli anni i jazzisti furono davvero interpreti del cambiamento, i portabandiera di quell'ideale di musica "progressista" tanto densa di implicazioni extra-musicali (politiche, in primo luogo); chiedetelo al Maestro Fariselli, chiedetelo ai "sommi intelletti" delle nuove sonorità italiche dei '70, a un James Senese che cantava della "gente 'e Bucciano", chiedete loro perché, fra i tanti generi possibili, scelsero proprio il linguaggio del Jazz-Rock per approfondire tematiche di cotanta rilevanza socio-culturale e conquistare il pubblico "militante" di Parco Lambro e degli altri festival Pop del periodo. Perché il Jazz-Rock era la musica del cambiamento, la musica che andava oltre la canzone, oltre le convenzioni, oltre la semplice idea di musica come "intrattenimento"; era una sfida, una provocazione, era musica "di frontiera" ma insofferente delle frontiere, nemica dei confini, di ogni limitazione. Era l'"alternativa" forte che non si limitava a vacua esposizione di tecnicismo e bravura musicale, ma parlava il linguaggio dei giovani, era "sfogo", esplosione, liberazione totale degli "istinti" creativi.

Oggi si è perso il contatto con l'irraggiungibile realtà di quegli anni, oggi si fa fatica a constatare la portata immensamente ideologica, oltre che musicale, di quel fenomeno; mentre i ghetti infuriavano, giovani bianchi di buona famiglia andavano al negozio di dischi a comprare "Bitches Brew" senza minimamente sapere cosa avrebbero ascoltato (perché nessuno lo sapeva, neanche i luminari della critica a cui quell'album andò di traverso); e lo custodivano in casa come fosse oggetto di culto, perché affascinati dalla "new thing"che quel Jazz sembrava essere, perché ipnotizzati dal fascino ancestrale che le immagini di Mati Klarwein sapevano evocare; e conoscevano l'immaginario della cultura afro-americana; alcuni di loro smisero persino di guardare al vicino di casa di colore come a un "diverso", come a uno "zio Tom" qualunque. Mi viene da ridere quando oggi sento parlare del Jazz e della Fusion come di musiche "da attico", da ascoltare accompagnandosi a un Martini e ad altri simili clichées da "yuppies", mi viene da ridere pensando alla temperie unica di quegli anni favolosi, mi viene da ridere quando vedo riproporre il solito stereotipo del "jazzista snob".

Dell'album in questione, l'avrete già capito, non parlerò molto, anche perché sapete ormai come sono abituato a recensire il Jazz ; quel che mi interessa è di fornirvi - con questa introduzione "storica" - gli stimoli giusti alla riscoperta di un altro grande del nuovo Jazz anni '70, uno che della nuova estetica è stato portavoce e protagonista d'eccezione: alcuni ricordano questo fiatista di Philadelphia solo per la collaborazione con Miles, quando duettava da far paura con la chitarra infuocata di Pete Cosey in album come "Agharta" e "Pangaea". Ma pochi rammentano il suo lavoro al fianco di Mongo Santamaria, e soprattutto i gioielli purissimi che ha regalato da solista, interpretando la novità del "cambiamento" pur nella preservazione della genuinità acustica della musica; e facendosi accompagnare, come in "Awakening", da un ensemble (tromba, piano, contrabbasso e batteria - con minimi inserimenti del Fender Rhodes di Kenny Barron) che andrebbe bene anche per una proposta Post-Bop, senonché la prassi esecutiva qui sposata la dice lunga sull'approccio "progressista" di Sonny: il sax è "forte", incisivo, potente, e si muove su linee tortuose che da una parte ricordano Coltrane e il coevo Dave Liebman, dall'altra esprimono la passionalità e la "corporalità" dell'assolo di un chitarrista Rock. Nella discografia di Fortune ho scelto di proposito un album non-elettrico per dimostrare la pervasività di questa influenza, per provare come il contesto musicale del tempo si faccia sentire, fra i solchi di questo disco, a prescindere dalla strumentazione impiegata. Echi di Latin Jazz alla Santana (emblematico il ricorso ai congas) si mescolano a torbide acrobazie di contrabbasso, singhiozzi e rigurgiti di sax emergono poderosi sulla ritmica costante, a delineare un quadro ricco, multiforme ma mai sovraffollato né cacofonico (neanche quando Sonny sperimenta il registro acuto). 

C'è poco da fare, io cado in trance quando ascolto certa musica (e anche quando ne scrivo). Minuti di godimento assoluto, spero gi stessi che trascorrerete voi in compagnia di questo capolavoro. 

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