«Sono troppo avanti rispetto ai loro tempi: questi ragazzi non faranno strada».

Questo sentenziava un poco avveduto giornalista americano nel 1969. Erano appena nati gli Halfnelson, il cui nucleo era costituito da due tizi di Los Angeles che si spacciavano per fratelli. Ron Mael, appena ventenne, sembrava un vecchio rachitico, era ingobbito e sfoggiava orribili baffetti hitleriani su cui avrebbe composto alcuni ridicoli nonché esaltanti pezzi; Russell Mael era ancora un adolescente, gagliardo e riccioluto. Il primo se ne stava in secondo piano appeso alle sue tastiere con aria vagamente tisica, mentre il secondo cantava e incantava con la sua voce angelica. Attorno a loro, una band di mattoidi destinati vorticosamente a cambiare.

Quel giornalista, si è capito, ci aveva visto malissimo: gli Halfnelson di lì a poco avrebbero cambiato il proprio nome in Sparks e si sarebbero ritagliati un posticino solo apparentemente periferico nella storia della musica. E di strada ne avrebbero fatta non poca: "Hello Young Lovers", il loro ultimo (e ventesimo) lavoro, è uscito nella primavera del 2006.

Chi sono stati gli Sparks sarebbe storia davvero lunga a raccontarsi. In breve: sono stati l'apogeo del glam-rock a metà anni settanta, quando "Kimono My House" scalò le classifiche inglesi e "This Town Ain't Big Enough For Both Of Us" raggiunse il secondo posto tra i singoli, quando schitarravano in modo anarchico e beffardo su una serie di testi che variavano dall'assurdo al caricaturale, tra riff psichedelici e sgangherata innovazione (i Queen nascono anche da qui); sono stati una delle più influenti band elettroniche degli albori (dopo i Kraftwerk e pochi altri), lanciati da Giorgio Moroder nel 1979 con un disco di straordinaria modernità ("Number One In Heaven") che avrebbe detto non poco a Pet Shop Boys, Erasure e compagnia, rimanendo insuperato; sono stati al numero uno in Francia a metà anni ottanta con un pezzo balordissimo ("When I'm With You"); sono stati il trionfo artefatto e cotonato del trash anni ottanta, attraverso un paio di album discodance di una bruttezza assassina, ben sotto al livello delle compilation di Bimbomix; sono stati al centro dell'eurodance di metà anni novanta, con una canzone che ha fatto sfracelli in Germania ("When Do I Get To Sing 'My Way'?") e con un disco ben venduto e accolto in Europa ("Gratuitous Sax And Senseless Violins"); infine sono diventati un fenomeno cult, idolatrato dalla critica quando nel 2002 ha sfoggiato un disco sconvolgente come "Lil' Beethoven" (pop e musica classica assieme), quando gruppi come Franz Ferdinand e Futureheads (come già in passato Faith No More e Beck, tanto per rendere l'idea della varietà) hanno dichiarato il loro amore e i loro debiti verso di loro (alla lista si è aggiunto persino Daniele Luttazzi...). E i due fratelli, il tempo, li ha mantenuti intatti: il primo sempre vecchio, come a vent'anni, con gli stessi baffi; il secondo sempre adolescente, come a sedici, con la stessa voce.

"Hello Young Lovers" vuole ripetere l'esperienza del precedente "Lil' Beethoven": base di archi, clima da operetta, ripetizione estenuante degli stessi temi, totale abbandono della struttura tradizionale della canzone, testi (come sempre) divertenti e grotteschi. In più si aggiunge una dose maggiore di chitarre (suonate da Dean Menta) ed effetti che però suonano troppo spesso datati, fuori tempo massimo, o semplicemente di serie b, playmobiliosi. Difficilissimo dire altro: è un sound strano, che solo raramente dà risultati comparabili con la musica che circola: "Perfume" è un buon pezzo, il più tradizionale, che si dondola su un piacevole jingle di piano swingeggiante; "Dick Around" è la cosa migliore del disco, una cavalcata a metà tra musica classica cantata e hard-rock, quasi metallo, con cambi di tempo continui e spiazzanti, a dimostrare che questi cinquantenni, dopo più di 35 anni di carriera, riescono a tirare fuori cose che nessuno mai si è sognato di scrivere. Divertente "There's no such thing as aliens", tre minuti di sviolinate vaudevillanti e burlesche all'altezza degli Sparks migliori: solo archi, piano e voci che si intrecciano. Il resto mescola momenti francamente incomprensibili e noiosetti ("Here Kitty", "Rock Rock Rock": ancora solo archi e cori di cantato-parlato) ad altri che cercano di ripescare qualcosa dal periodo d'oro del glam e che recuperano soprattutto una poco impiegata batteria ("Metaphor", "Waterproof"). "As I Sit Down To Play The Organ At The Notre Dame Cathedral" chiude in gloria: sette minuti di coretti, chitarre distorte, organo e decorazioni medievaleggianti. Assurda.

Il discorso, con gli Sparks, è sempre il solito: o li ami o li odi. La prima sensazione ad un ascolto di un loro qualsiasi disco (questo più di altri) è un immenso imbarazzo. Quindi il consiglio è di ascoltarli in solitudine. Poi la vergogna passa: e o li ami o li odi. Io, lo confesso, li amo. Il fatto che questo disco mi abbia lasciato freddino, tranne alcuni passaggi memorabili, mi ha preoccupato un po'.

Consiglio comunque, per conoscere questi piccoli maestri rimasti sempre all'ombra, di partire dalle cose migliori di questo disco e di andare poi a ritroso: si capirà che i Mael sono dei turbinosi geniacci che da decenni, girando instancabilmente attorno alla musica nel suo senso più vasto, ne scoprono sempre nuove e inesplorate sfaccettature. Con più o meno fortuna, ma con un coraggio invidiabile.

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