Disco epocale, di una grandezza abissale che proietta il jazz nel nuovo millennio. È lo Spiderland di uno stile che era rimasto impantanato su se stesso affidato com'era a gente di dubbio valore per la quale un concerto al Blue Note rappresenta la conquista di un empireo musicale ideologicamente abbastanza conservativo.

Gli Spring Heel Jack riformulano il jazz coniandolo dentro spazi industriali, un industrial jazz che è già post con l'impatto di una deflagrazione, come imbottire di tritolo l'Ayers Rock, sbriciolano le convenzioni del genere. Che arrivi 10 anni dopo l'immortale capolavoro degli Slint conferma solo le tendenze retrò del mondo del jazz. E sparito ogni discorso armonico rimangono solo le timbriche i suoni, in un certo senso sparisce anche l'esecutore, gli strumenti sono meccaniche automatiche, nessuna emotività macchine industriali lacerano il contesto sonoro i suoni stessi sono rumori perché privati di ogni senso, perso il significato si viola anche il significante, è un pur caso che rientrino nella sfera dell'udibile potrebbero essere anche pianeti in orbita o mosche. È un passo avanti anche rispetto a Spiderland, è obliterato il referente è un'opera che nega se stessa, apofatica, irrelata. Nessuna accensione, la dinamica (forte-piano) è destrutturata dalla mancanza di narratività (non si suona forte rispetto ad un prima per intenderci) e anche la profondità tra le parti è pura opinione in un mondo che ha nella tecnica la propria teleologia. I virtuosismi sono solo apparenti, le svisate della tromba per esempio, non cercano la nota più alta, sono la scansione di uno spettro di percezione su cui trovare un punto d'appoggio, il destino di tutto ciò è l'afasia, il silenzio, lapidario come quello che chiude il Trattato di Wittgenstein «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.».

L'estetica dell'automazione vige, si prenda la nenia della 4 traccia: come se un braccio meccanico mettesse su un grammofono un disco di Miles Davis per far addormentare il proprio pargolo di ferro; non è musica da milieu urbano, l'unica è immaginare uno scenario come quelli disegnati da Moebius in Arzach, spazi enormi e relitti di civiltà industriali, sempre nella 4 potrebbe essere un canto d'addio (si chiude con una sorta di rombo): una costruzione chilometrica in mezzo al nulla che si scopre essere la ciminiera di un altoforno e la tromba che saluta la donna lassù in cima, o è un saluto alla ciminiera o il contrario forse. Questo disco è per gente di 10000 anni dopo, è l'elogio dell'autismo, dell'ebetismo emotivo, è per tutti quelli che non si turbano per i 100 morti al giorno di Baghdad perché se ancora sanguiniamo è solo questione di tempo. Moroc non è musica da deserto ma piuttosto da Atlante con montagne accese come colate d'acciaio. Obscured è scandita da un battito di mani, esseri depauperati di sé chimicamente lobotomizzati intonano un ultimo disperato sforzo di umanità, tra le grida di Achtung di una chitarra le percussioni sono sirene in un penitenziario in cui si è consumata una fuga, gli strumenti tutti robot sentinelle in allarme, per quanto condizionati i loro gesti sono l'unico segno di riscatto in un panorama di reificazione di concrezione tecnologica, come se un uomo nuovo fosse di là da costruire.

Elenco tracce e video

01   Double Cross (05:16)

02   Amassed (05:33)

03   Wormwood (07:03)

05   Maroc (04:25)

06   100 Years Before (09:27)

07   Duel (05:54)

08   Obscured (08:43)

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