Devo partire con una premessa. Ho sempre odiato a morte la maniera “italiana” di fare serie tv. Prima cosa, ci vuole criterio, portare avanti una storia significa riuscire a essere originali, bilanciati,  con sceneggiature sempre “pensate” e mai improvvisate in un certo senso bisogna avere un target di pubblico ben preciso. Ecco quello del target penso sia la problematica maggiore. La necessità di fare ascolti spesso rende i prodotti adatti un po’ ai gusti di chiunque finendo per depauperare le potenzialità comunicative/artistiche dei suddetti. Questo in america succede molto meno, un po’ per budget, un po’ per maggiore bacino di utenza linguistica, anche la serie tv più di nicchia ha una sua fetta consistente di ascolti.

Con Gomorra evito qualsiasi preambolo e arrivo subito al sodo, cercando di far emergere il mio spunto critico.

Fin da subito non mi aspetto certo che passi questa fatidica prova di maturità che(come ho detto) non concerne la serie media italiota. Varie fonti amiche, che hanno i miei stessi gusti in fatto di cinema, musica, figa ecc non mi hanno dissuaso ma hanno cercato in tutti i modi di convincermi alla visione.  Stefano Sollima ha diretto ACAB, prodotto notevole sulla vita in prima persona nell’ambiente della celere, cosi come la serie Romanzo Criminale(che mi manca ma recupererò a breve) dove le critiche positive anche in questo caso sembrano piuttosto unanimi.

Vivo vicino napoli, conosco e parlo alla perfezione questo dialetto, ho a che fare con gente con le stesse attitudini caratteriali dei personaggi narrati praticamente in modo continuo, quindi consideratemi in qualche modo “coinvolto fino in fondo”.

La storia ha luogo fra secondigliano e scampia (waaaaaaaaa o verament?) e il plot è praticamente una traslazione della faida di scampia(2004-2005) ai giorni nostri.

Non si vive la camorra a tutto tondo come in Gomorra di Garrone(gestione illecita dei rifiuti, prostituzione, contraffazione) ma ci si concentra sulla lotta per il traffico di stupefacenti.

Subito si sente la mano di Saviano: persona istruitissima, coraggioso giornalista di inchiesta, le cui testimonianze hanno avuto estrema utilità per l’opinione pubblica, ma che vede il male di napoli circostritto principalmente nelle dinamiche nell’hinterland secondiglianese. Come dire: il cancro è localizzato in quei due tre quartieri, quei quartieri sono la fonte della demonizzazione dell’immagine napoletana. In realtà la mentalità “mafiosa” napoletana è una metastasi diffusa. E in quei quartieri c’è arrivata solo indirettamente. E questo può testimoniarvelo qualsiasi cittadino napoletano.

Passiamo al telefilm vero e proprio, anche se mi sento di consigliare la lettura ha chi ha già terminato o visto buona parte degli episodi(ci sono diversi  spoiler impossibili da omettere).

Il fatto di introdurre la famiglia Savastano in una fase di percepibile declino sembra fin da subito una scelta azzeccatissima. E si evita qualsiasi effetto deja-vu col capolavoro di Tornatore che invece si concentrava sull’ascesa del clan. Si viene direttamente catapultati in una realtà in cui la catastrofe è sempre dietro l’angolo, pronta a ridisegnare tutte le dinamiche che coinvolgono i protagonisti. Momenti di stasi effettiva in dodici puntate non sono rinvenibili. Il fatto di tenere la tensione a livelli sempre sostenuti, spiega praticamente il successo del prodotto del quale è molto difficile dirsene annoiati al termine della visione.

Personaggi, e  caratterizzazione. Partiamo dai protagonisti, tutti di formazione teatrale da Fortunato Cerlino, alla milf-issima Maria Pia Calzone, a Marco D’amore. Il modo di esporsi, la frequente modulazione dei toni di voce, la mimica, ne sono un chiaro segnale. Spesso di avverte che lo scendere così profondamente nella parte(tipico degli attori teatrali) crea un impatto quasi parossistico, e proprio per questo forse meno credibile.

Il livello recitativo in genere si mantiene su livelli dignitosi, anche dalle comparse(gente del posto che al massimo si è vestita da albero come landscape della recita di quinta elementare) non si sente quasi  mai l’effetto filastrocca. Quanto alla caratterizzazione, il fatto di concentrare le vicende su pochi personaggi, permette di viverli a tutto tondo e forse è anche questa una delle chiavi di successo – Breaking bad insegna. Alcuni di loro sono destinati a entrare nell’immaginario collettivo, soprattutto Salvatore Conte le cui attitudini contrastanti ne creano un personaggio unico, inimitabile. Per Genny Savastano ecco che cominciano ad aprirsi le note dolenti.  E il più grande buco di sceneggiatura di tutta la serie. Ci viene presentato come un bimbominchia incapace di accalappiare una topa analfabeta in un locale e dopo essere stato(15 giorni? Un mese?) dai narcos in sudamerica ritorna come il più grande cazzuto mafioso mai esistito, pensando che c’è gente che invece dopo un anno di leva ritorna più rincoglionita di prima. Questo stona molto con la natura iperrealistica della serie.

E senz’altro  il l’aspetto migliore resta proprio il realismo, la messa in atto(più che l’idea) di ciò che viene realizzato. La sensazione di “esserci” e di assistere in primo piano alle vicende resta il punto di forza in tutta la storia. Il linguaggio appare sempre spontaneo senza artifici politically correct: ad esempio non ricordavo di aver mai sentito in tv espressioni come “mi ha fa semp nu bucchin” oppure “ne Gennà ma a quant jè can un te fai na chiavata?”. Meno l’idea, appunto. Tutto ciò che contorna e rappresenta l’hinterland napoletano è il male, il male più puro. Si vuole dare sempre l’impressione che avere un qualsiasi contatto con la camorra si traduca automaticamente in un coinvolgimento totale da cui è difficile districarsi; tutte le anime che vivono scampia e dintorni appaiono inesorabilmente tristi, costrette a convivere con comportamenti omertosi e la cui unica via di scampo sembra proprio una affiliazione latente o esplicita coi clan le cui ripercussioni future hanno sempre esiti fatali sulle loro povere e inutili vite. Senz’ altro si vuole mostrare una concezione di etica diversa, quella che contorna i contesti degradati, ma tutto appare alla lunga estremamente esasperato. Nella seconda parte del telefilm, dove la carneficina per le strade è tanta che manco Gaza, spesso gli esiti delle vicende appaiono sempre più scontati, e contribuiscono a depauperare le potenzialità narrative – tante- che spesso vengono stroncate sul nascere.

Le puntate migliori, e più originali, restano quelle lontano da scampia. Dalle vicende di Don Pietro in cella capace di organizzare rappresaglie continue, all’episodio iberico- forse il migliore in assoluto- forte anche dell’ atmosfera crepuscolare e dal quale comincia il cataclisma inesorabile; fino alla discesa agli inferi del broker polentùn riciclatore dei proventi di famiglia.

Cerco di concludere qui, visto che di ogni singolo argomento è possibile scrivere poemi, probabilmente ne ho approfonditi troppi e lasciati in maniera superficiale altri. Il messaggio da parte mia deve essere uno solo:

-          Gomorra è senz’altro una serie innovativa, coraggiosa e per molti aspetti procede a briglie sciolte senza le ricadute convenzionali della serie media Italiana, e in questo poco Italiana;

-          Va vista, punto. La realizzazione potrà anche risultare deficitaria e carente  per diversi aspetti, ma sicuramente non vi annoierà.

-          Ditemi dove avete visto personaggi rappresentati così bene come Salvatore Conte e Imma Savastano.

Voto di incoraggiamento in attesa della prossima stagione (2016 Pio Cane) sperando in un equilibrio maggiore fra le criticità analizzante e in evoluzione del plot meno ridondante.

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