La reazione ad una perdita, ad un evento traumatico è oggetto più o meno da sempre di sfaccettature psico-analitiche sulle quali sono stati scritti trattati e manuali non solo per esclusivo uso e consumo dell'ars medica, ma anche al fine di accompagnare nel resto della vita chi subisce un lutto o chi sopravvive a qualcosa di talmente devastante da non permettergli di tornare alla "normalità" della vita comune. Elaborare il lutto, non fare finta di nulla, continuare a vivere nell'accettazione senza mezzi termini di ciò che è successo, utilizzare l'esperienza e il dolore al fine di migliorare la propria vita futura, filtrare l'odio, il senso di vendetta e la rabbia per trasformare tutto ciò in amore per il prossimo e propositività; si, va bene....ciò che ti aiuta ad andare avanti è bene accetto se migliora la qualità della tua vita e la qualità dei tuoi pensieri. Ma si ha come l'impressione, sempre, di non essere capaci, di essere colpevoli inevitabilmente e a prescindere dalle responsabilità altrui....come se ogni disgrazia che ci capita fosse in qualche modo potuta essere stata evitata o attenuata o resa meno dolorosa, come se dire anche una parola o alzare una cornetta del telefono nel momento giusto avrebbe potuto rendere il tutto meno devastante e tragico. Se poi si è bambini tutto è ancora disgraziatamente più complesso: i bambini hanno una prospettiva differente, si chiedono perchè, un "perchè"differente, un "perchè" più semplice, se vogliamo......se poi si è il figlio di un meraviglioso padre che una mattina dell' 11 settembre 2001 a New York esce di casa per andare a lavorare e non torna più, allora le cose possono anche sfuggire di mano. 

"Il giorno più brutto" ormai è passato per Oskar, sono trascorsi i mesi, e lui, con i suoi nove anni, cerca ancora una motivazione, non la stessa che un pò tutti, in tutto il mondo, hanno cercato, a lui interessa solo capire perchè  da un giorno all'altro suo padre non c'è più, gli interessa capire in che modo possa ancora dialogare con lui e sentirlo ancora vicino ma soprattutto vuole con tutto se stesso non arrendersi e continuare a cercare il senso di quello che è successo nella sua vita ancora troppo acerba e forse troppo sensibile per accettare incondizionatamente (come gli dicono di fare quelli più grandi di lui) uno stravolgimento così enorme.

Così Oskar trova tra le cose del padre una chiave e decide che solo scoprendo il contenuto di ciò che quella chiave apre, potrà magari trovare un senso a tutto.

La storia così prosegue tra affannose ricerche, sfoghi rabbiosi e ricordi in una sorta di odissea di formazione che porterà il giovane Oskar a crescere e a conoscere e relazionarsi con persone che tutte, in un modo o nell'altro, gli cederanno qualcosa di loro per aiutarlo non tanto nella sua ricerca materiale ma in quella interiore di "accettazione" ed "elaborazione" del dolore. 

Stephen Daldry è un regista coraggioso, lo si è già visto in due delle sue realizzazioni più conosciute ( The Hours e The Reader), e le storie che sceglie non sono tra le più facili da riprodurre in immagini e così, nel caso di questo "Molto forte, incredibilmente vicino", la cosa si è mostrata ancora più ardua, da un lato perchè il tema dell'11 settembre è visto ancora come una sorta di tabù per il cinema statunitense, dall'altro perchè rappresentare il tutto attraverso gli occhi di un bambino poteva essere reso in modo tanto buonista quanto stucchevole.

Dalla sua, senza dubbio, ha potuto contare sull'ausilio di una produzione solida e di un cast senza dubbio all'altezza della situazione (giusto il caso di citare la superba interpretazione di Max Von Sydow nel ruolo di un "misterioso" signore anziano e muto che aiuta il giovane nella sua ricerca) e nel fatto che la sceneggiatura di Eric Roth (piuttosto fedele al libro) riesca a ricreare con mestiere ogni elemento psicologico di ogni singolo personaggio. Per questo un plauso generico dovrebbe andare all'operazione in sè considerata dal punto di visto strettamente cinematografico, ma alla fine quello che convince di meno è paradossalmente la mancanza di poeticità, la strana sensazione di freddezza che avvolge il tutto. Non sono mai andato troppo d'accordo con quei film che hanno come unica finalità quella di farti fare dei sonori singhiozzi, e non credo sia questo il caso, ma si ha come il presentimento che la direzione che si cerca di imboccare in taluni episodi sia proprio quella e cioè quella della mielosità e della lacrima facile; senza essere frainteso, senza dubbio alcune scene sono comunque di forte intensità (il "dialogo"/ "confessione" di Oskar con il suo anziano amico, il confronto finale tra il ragazzo e la madre) ma quello che, alla fine del film, rimane è pur sempre la convinzione di aver assistito all'ennesimo film strappa cuore

Da un altro punto di vista invece, ma questo è estremamente soggettivo, si rimane avvolti da una tristezza e da una commozione un pò scomode proprio perchè così distanti dalla poeticità e così vicine all'accettazione ( alla fine proprio come per il giovane protagonista).

Almeno per me è stato così.


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