Da sempre, fin dai più remoti esordi, il mondo del cinema ha attinto a piene mani dal mondo della letteratura. Questo perché è più semplice sceneggiare trame già impostate (più che sceneggiare si dovrebbe utilizzare il termine rimaneggiare) piuttosto che inventarsi storie nuove ed appassionanti. I romanzi che più hanno avuto successo al cinema sono, curiosamente, i più cupi e pessimisti. Dracula, Frankenstein, Nosferatu: il genere horror-gotico (differente dall'horror classico) ha sempre attirato il pubblico di tutto il mondo, vuoi per il fascino perverso della storia vuoi per una sorta di evasione dalla realtà.
L'horror gotico è un sottogenere dell'horror classico: quello classico si basa sulla paura attraverso inghippi della trama o colpi di scena ad effetto micidiale ("Profondo rosso", tanto per fare un esempio); quello gotico cerca di creare paura allo spettatore attraverso la costruzione psicologica dei personaggi (primi piani angoscianti, visi poco rassicuranti) grazie al contributo fondamentale dei paesaggi. Se pensate al Nosferatu di Murnau, a mettere angoscia allo spettatore erano le riprese del castello dal di fuori, i paesaggi notturni e spettrali, caratterizzati da complesse inquadrature taglienti ed efficaci (angolazioni ardite, montaggio forsennato, tagli espressivi tipici dell'Espressionismo Tedesco). Se vogliamo, è un genere di horror più complesso e meno pauroso, ma certo di grande efficacia scenica.
In tempi recenti, ci ha provato Stephen Frears (già apprezzato regista de "Le relazioni pericolose") a rinverdire i fasti dell'horror-gotico. Lo spunto glielo dà un romanzo di Valerie Martin, "La governante del dottor Jekyll", una sorta di ‘dietro le quinte' del celebre capolavoro stevensoniano "Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde" (1886). Nel romanzo della Martin, la protagonista è una sedicente cameriera, onesta lavoratrice alle dipendenze del dottor Jekyll, dal quale accetta volentieri lusinghe e gesti d'amore. Ad infastidirla, sono le attenzioni che le rivolge il signor Hyde: ignora che siano in realtà la stessa persona.
Il film di Frears, bene o male, cambia pochissimo rispetto al romanzo, e tenta la difficile strada dell'horror-gotico, ma l'impresa riesce a metà. L'atmosfera è certo cupa e spettrale, ma anche molto stereotipata (la Londra fumosa dell'Ottocento) e, se vogliamo, vista e stravista almeno una cinquantina di volte (siamo dalle parti di Oliver Twist), anche se, a dire il vero, il vero punto di forza del film è la sorprendente interpretazione di Julia Roberts, protagonista assoluta della pellicola.
Chi per anni ha tacciato la Roberts di non essere una grande attrice si è dovuto di colpo ricredere. Perché se è vero, come è vero, che quando prende parte a film commerciali e stupidotti (vedi "Se scappi ti sposo", ma anche "Mona Lisa Smile") Julia Roberts dimostra che l'unica che sa fare è mostrare i denti e sorridere a qualsiasi frase, è anche vero che quando decide di togliersi di dosso quell'aurea da eterna svampita ed ha il coraggio di mettersi in gioco con film meno banali e meno commerciali, dimostra di essere anche una più che sufficiente attrice da blockbuster. E "Mary Reilly" lo dimostra: sguardo pauroso, curva sul pavimento a pulire la casa del sadico dottore, angosciata nel solo udire i passi di una persona, sbarrata in una stanza ad aspettare il peggio. Una gamma espressiva se non eccezionale perlomeno interessante, ed in fondo, se vogliamo essere sinceri, è lei a tenere in piedi tutta la baracca.
Meno eccezionale la regia di Frears, un po' tagliata via con l'accetta, ma anche il personaggio di Henry Jekyll (interpretato da John Malkovich) è una semplicissima figurina, senza nessun taglio psicologico di una qualche rilevanza. Tirando le somme dunque, si potrebbe definire "Mary Reilly" la grande occasione persa per smarcarsi un po' dalle solite tematiche del buono e del cattivo, della bella e della bestia. Certo, poi non si può negare che alcune scene sia effettivamente ben congegnate, che il lato oscuro del mostro, benchè non completamente risolto, riesca ad attirare l'attenzione anche dello spettatore più svogliato, e che il rapporto tra schiava e schiavista nasconda più di un esplicito affaire sesuofobo.
E la colpa della non riuscita impresa spettacolarizzatrice del romanzo della Martin non è da attribuire tutta a regista, Frears, e sceneggiatore, Christopher Hampton. Ci sarebbe da tirare in ballo anche la produzione, che ha dilatato a dismisura i tempi di lavorazione del film (perché non si riteneva soddisfatta del lavoro svolto dal regista), ha rimpiazzato Al Pacino con John Malkovich e ha scelto il finale meno coraggioso, forse per venire incontro alle esigenze di bontà del cosiddetto pubblico medio.
Ma il pubblico, medio o alto che sia, ha rifiutato in toto la pellicola e ha disertato con grande compattezza le sale in cui il film veniva proiettato. Una grande occasione persa.
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