"Alle tre del mattino il sangue circola lento e spesso e il sonno è pesante. L'anima o dorme nell'assoluta ignoranza dei pericoli dell'ora o guarda se stessa disperando salvezza."
Si dice che passata l'adolescenza sia difficile che qualcosa graffi profondamente una persona. Le notti di Salem mi ha invece colto di sorpresa, segnandomi per sempre. Preso da altre letture, ho guardato alle sue prime pagine con semplice curiosità, finendo inevitabilmente per esserne rapito. Di King, quand'ero più piccolo, avevo letto Misery e Shining, senza però assimilarli; in testa custodisco ancora poche frasi e pochi momenti. Altre sono state le cose che hanno scosso la mia infanzia. Le notti di Salem, invece, si è rivelato per quest'uomo (un po') più cresciuto come una malattia: abituato a leggere a ritmi catatonici, mi sono scoperto tramutare - a mia volta - in una sorta di vampiro, notte e giorno chino sulle pagine scritte da King alla disperata ricerca della fine. Una fine che si è mano a mano avvicinata - allo sfoltirsi delle pagine impugnate dalla mano destra e al crescere di quelle sulla sinistra - in maniera gioiosa quanto terribile. Così come davanti agli occhi di un mostro, mi dannavo per essere stato privato, paragrafo dopo paragrafo, di una lettura così tremenda e meravigliosa.
L'orrore narrato da Stephen King penetra lentamente nella mente di chi legge; sui canoni del genere egli tesse abilmente storie umane, amori; egli si volta a guardare alla società americana - in particolare, con Salem, a quella disincantata del Watergate - ai suoi attori che sono facce diverse della stessa grottesca umanità. E' spietato, l'autore del Maine, nel ritrarre quelli che potrebbero essere i suoi vicini di casa, il suo droghiere, la sua amante. La storia di vampiri procede in parallelo agli orrori dell'uomo, lo sfruttato costretto a lavorare per sopravvivere, quello che annegando nei fiumi dell'alcool perde ogni contatto con ciò che è elevato, con ciò che rende la vita degna e non semplicemente uno straccio da buttare quando logoro. Osserviamo, ad esempio, un marito che è legato alla moglie solo se capace di riempirla di botte, oppure una madre che picchia il suo neonato che ha fame, con disprezzo - giunge poi il consorte ubriaco: egli sgrida la donna e le chiede una birra fresca di frigo. I vampiri e il loro Signore, in fondo, si uniscono a queste vite con eleganza, esercitando semplicemente il proprio istinto primordiale. Succhiare sangue ad altri orripilanti "esseri umani"; niente di così orribile se pensiamo al Vietnam rievocato da King, alle bombe su Hiroshima e Nagasaki, a chi per un pugno di soldi chiude la bocca dinanzi ai più sporchi malaffari. Ben Mears sa tutto questo e, disincantato, scrive dell'America senza sforzarsi di cercare il capolavoro: egli vomita pagine una dietro l'altra, consapevole che qualche stolto le inghiottirà senza chiedere di più, rinfoltendogli il portafoglio.
Oltre alla coscienza sociale, King gioca con le parole, costruisce dolcemente una storia d'amore - circondata, inoltre, da due passati tormentati e altrettanto toccanti - dipinge anche la malinconia per l'adolescenza vissuta in campagna, lontano dalla città. La malinconia che sorge guidando l'automobile al tramonto, costeggiando i campi, mentre il passato giunge a corrodere ogni serenità; all'improvviso eccoci scorgere due ragazzi che vanno a pescare canne alla mano, così come decenni prima era (si può immaginarlo) capitato al protagonista. King, poi, arricchisce ogni pagina con la propria ironia caustica, con le proprie similitudini:
"Jimmy guardò fuori dalla finestra e mormorò: <<Luce...>> proprio come un poveraccio direbbe <<Soldi...>>"
"Gli alberi che circondavano il cortile erboso dell'ospedale erano ormai quasi del tutto spogli, e i loro rami neri si stagliavano contro il cielo grigio come lettere gigantesche di qualche oscuro alfabeto."
"Il suo viso era triste e vecchio, come il bicchier d'acqua che servono nei ristoranti da poco."
I capitoli di King si fanno leggere avidamente; l'abilità dello scrittore statunitense nell'attanagliare il lettore è innata: le frasi scorrono come il tintinnare di un rasoio. Pochi istanti, magari un sorriso, poi l'orrore è pronto a piombare nuovamente sfogliando un'altra pagina, come un'ombra che non lascia scampo. Ecco che si ripresenta quell'orrore atavico, capace di far tornare bambini; poche cose viste sullo schermo sono capaci di terrificare quanto l'ingresso del feroce Barlow in casa Petrie, dinanzi agli occhi sbalorditi di padre Callahan. Così come sono indescrivibili i brividi che si provano guardando al piccolo Mark, costretto a sbrigliarsi dalle corde mentre i passi di Straker riecheggiano per Casa Marsten. Casa Marsten, con quella sua porta in fondo al corridoio, oltre cui Hubie si è impiccato nel '39...
Casa Marsten, l'occhio che veglia su Jerusalem's Lot, infine, è l'emblema che racchiude tutti gli umori dell'opera di King. Un'opera che assurge a capolavoro proprio per il suo intreccio avvolgente, capace di raccogliere le vite di così tanti personaggi facendole palpitare all'unisono sul palcoscenico del Lot; il piccolo paese di Salem, così distante dal mondo, eppure capace di parlare per l'America tutta. Un'America in autunno, prossima ad appassire. Un'umanità che nel '75 sta già morendo, custode ignara di segreti antichi, poteri che neppure la chiesa riesce a comprendere: la luce che illumina una croce, non in nome di Dio, ma in nome di un'entità che da ere combatte contro le pulsioni che animano i vampiri del mondo, i Barlow e i loro Signori supremi. Politicanti? Impresari? Assassini? Non è dato saperlo.
Lasciatisi alle spalle il cartello che annuncia la fine di Jerusalem's Lot, il terrore continuerà a incrinare le pareti di qualsiasi casa. Anche giorni dopo aver chiuso il libro, l'inquietudine continuerà ad avvolgere chi ha letto di Ben Mears e della sua Susan. Un libro che è sempre lì e sembra sussurrare: "Ascoltami. Guardami. Torna ad aprire il primo capitolo."
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