Innanzitutto è d’uopo confessare, con la massima sincerità, la propria sconfinata ignoranza. Avevo leggiucchiato qua e là di questo disco, e ne avevo saputo da ignorantoni come me (e forse anche di più) che scrivono sui giornali e che la propria ignoranza paventano spavaldi ma confesserebbero mai, neanche sotto tortura.
Comunque, era nell’aria che Sting pubblicasse un’opera coraggiosa e assolutamente “out”, col benestare di un nome grosso della classica, quella “Deutsche Grammophon”, dal logo giallo, di cui ciascuno di noi ha almeno un disco in casa, siano le arie famosissime che canticchiano anche le nonne, siano raccoltone di adagi istigatori di depressioni o siano dischi realmente belli e ricercati comprati da veri appassionati di classica. Dunque, questo è definibile un disco di musica classica ?
Direi di no, se non in un’accezione del termine talmente larga (e forse giusta) nella quale si vedrebbe classificare come classica moltissima roba, a partire da Beatles e De André, per non parlare di Guthrie o Brassens. Secondo l’accezione che la canzone, questo mostro di popolarità, può essere definita classica senza alcun timore reverenziale o complesso d’inferiorità. Comunque, tornando alla mia ignoranza in merito, e a quella del mio discaio di fiducia, pochi giorni or sono entro e chiedo “l’ultimo di Sting”, aggiungendo, con fare intellettualoso ma col ghigno di chi è pronto ad esser smascherato “ma si tratta di canzoni di uno dell’ ’800… no…?”, e lui mi guarda, molto più professorale di me, e senza la furberia del ghigno, “no…è del ’400”. Bene, aprendo la copertina e leggendo il bel libretto, mi sono accorto che mediando tra la mia ignoranza e la sua ci si prende, fermandosi al ’600…
Le canzoni sono tutte di un autore elisabettiano, John Dowland (1563-1626), ad eslcusione di una di Robert Johnson (tranquilli: è un omonimo) (1583-1633), e sono accompagnate eslcusivamente dal liuto di un bravissimo Edin Karamazov, che naturalmente non conosco, limitando la mia sconfinata competenza al jazz e ai cantautori, ma che trovo subito tecnicamente molto bravo ed espressivo. Dunque, riassumendo: un disco, anche abbastanza lungo, di Sting che interpreta, accompagnato solo dal liuto, le canzoni di un autore secentesco. Ci sono tutte le carte in regola perché si tratti di una smaronata fotonica, direte voi, che notoriamente non avete il senso della poesia. Ebbene…io, che sono bestia come voi e forse ancor di più, vi dico che questo disco è schiettamente bello ed educativo, anche nei nostri riguardi (non si è mai troppo vecchi per essere un po’ educati). Suona benissimo.
Sting canta splendidamente, e si sapeva. Le canzoni sono bellissime, scritte benissimo, sia in quanto a musica che a parte letteraria, non certo l’inglese delle canzonette che ti permette di capire tutto se hai imparato duei 7-8 vcaboli di riferimento. Qui, effettivamente, è consigliabile avere nei paraggi un dizionario, e così scoprire delle liriche belle, poeticissime, perlopiù d’amore. Un disco che ha un sapore “new age”, se il termine non fosse improprio e, fondamentalmente, abusato e banale.
Insomma…: sintetizziamo dicendo che è un’opera gradevolissima, che tiene grande compagnia, e non necessita neppure d’essere dissacrata, tanto è fondamentalmente fruibile. In più è la prova che la scrittura d’alta qualità, come provano in tempi diversi Archiloco, Pavese, De André o Dylan, non ha tempo né moda. Come quella brutta, come dimostrano in altri tempi e modi Manzoni e Tamaro.
E questo, scusate l’ignoranza, è il lato educativo.
Elenco e tracce
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Altre recensioni
Di Lesto BANG
Un disco lezioso, terribilmente sussurrato tendente al moscio... una voce 'pastosa' e decontestualizzata.
Frankamente imbarazzante, no? Un po' come sentir cantare Nick Cave 'O Mio Babbino Caro' o Bocelli 'Smells Like Teen Spirit'.