Simon è un giovane universitario, vive a San Francisco e coltiva l'hobby del canottaggio. Biondo, magro, occhialuto, modellato interiormente da una disciplina sportiva, quasi militare. Simon ha venti anni circa ed è il 1970, epoca delle contestazioni studentesche nei confronti delle quali egli sembra assumere un atteggiamento noncurante, se non del tutto indifferente. Da principio si limita a filmare quel che gli accade intorno, utilizzando una piccola cinepresa da filtro alle sue impressioni sul mondo esterno, poi l'occhio - obiettivo cade su Linda, ed è colpo di fulmine. Aderisce all'occupazione dell'ateneo, comincia a percepire intensamente le ragioni della protesta, ingaggia una lotta politica in parallelo ad una sentimentale fino ad un tragico epilogo.

Dietro ogni opera cinematografica ci sono delle motivazioni e raramente assumono connotati artistici. E' molto probabile infatti che se nel 1969 Peter Fonda non avesse prodotto "Easy rider", monumento (pre - sepolcrale?) della cultura hippy, la Metro Goldwyn Mayer non si sarebbe mai e poi mai lasciata convincere a produrre alcuni registi come Antonioni ed Altman, men che meno l'ormai dimenticato Stuart Hagmann, che firma appunto "Fragole e sangue". Risulta effettivamente strano credere che un film sulla contestazione giovanile sia frutto di una macchinazione da produttore hollywoodiano, così come non stupisce affatto l'idea per cui un tempo erano le pellicole impegnate ad attirare la gioventù, oggi basta molto meno, ma questa è un'altra storia. Tornando a noi, fu così che la coppia di produttori Winkler / Chartoff affidò ad Israel Horovitz, sceneggiatore, un soggetto tratto da un best seller dell'epoca circa le rivolte studentesche che interessarono New York, "The strawberry statement", del giornalista James Simon Kunen. Il tutto venne messo nelle poco esperte mani del già citato Stuart Hagmann.

Hagmann era infatti un esordiente alla regia cinematografica (Girerà solo un altro film "La ragazza di Greenwich village" per poi tornare alla TV), ma già rodato documentarista. "Fragole e sangue" suggerisce infatti l'idea di un documentario per l'uso della camera: i particolari vengono ripresi in maniera martellante ed opprimente con zoom continui e movimenti circolari, come a volerli proporre senza alcun eufemismo, imprimerli nella mente dell'osservatore con lo stesso criterio di un monotono gesto ripetitivo. Alcuni hanno voluto intendere in questa particolare scelta registica una volontà di penetrare l'impressione dell'osservatore direttamente, senza fronzoli retorici o virtuosismi d'autore, un'esuberante sincerità che fa avvertire la nostalgia della disarmante discrezione di certe regie, forse non proprio alla portata di un debuttante.

Ma d'altronde il progetto nella sua totalità nasce dalla rude cronaca (Che guarda caso si dice rovinare lo stile ai promettenti scrittori), da un'affermazione del rettore della Columbia università che non si preoccupava di ciò che pensavano gli studenti "più di quanto mi preoccupi delle fragole". Il sangue arriva solo alla fine, quando le forze dell'ordine si scaglieranno all'interno dell'università per condurre via con la forze gli occupanti, intenti ad intonare "Give peace a chance" (La colonna sonora è senza dubbio l'elemento intoccabile dell'opera), una scena di culto per la generazione dell'epoca come per quelle successive. Insieme alla polizia fa irruzione la realtà cruda, si fa largo fra gli ideali utopici degli studenti fino a massacrarli. Eppure, per poter apprezzare il vero valore di "Fragole e sangue", cioè una testimonianza a caldo degli eventi sessantottini (evitandoci apologie e/o revisionismi da "senno di poi"), è necessario scavare in una fitta jungla di storie binarie perlopiù derivanti dalla figura del protagonista Simon: la storia d'amore con Linda, l'amicizia con un canottiere che si converte alla causa studentesca, brevi incontri dall'edulcorato intento sociale. Ma è necessario riconoscere a "Fragole e sangue" anche un merito, quello di aver lanciato Bruce Davison, attore che successivamente lavorò con Altman ("America oggi") e raggiunse una candidatura all'Oscar per "Che mi dici di Willy?". Interpreta Simon arricchendo il personaggio di leggerezza e venature umoristiche, ma soprattutto convincentemente.

Valore storico dunque. Eppure sussiste un problema. Getta infatti un'ombra di dubbio la grande mano della Metro Goldwyn in merito all'effettiva trasparenza che una major può garantire producendo opere di contestazione al sistema. In tal modo la testimonianza viva della contestazione andrebbe a concentrarsi esclusivamente nel clamoroso e verosimile finale, che per i giovani dei primi anni settanta doveva assumere un retrogusto amaro, a causa del prevalere della forza bruta, al contrario chi oggi avrà letto "Pastorale americana" di Philip Roth sarà inevitabilmente condizionato nel giudicarlo come una semplice conferma dell'inconciliabilità fra l'ideologia hippy e la violenza intrinseca allo spirito d'America.

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