Sarebbe proprio il caso di dire "vatti a fidare dei colleghi di lavoro.." una volta rivisto questo film. Ma ci sono altre considerazioni che mi sorgono spontanee e che vado poi a proporre.

Il film in oggetto è "I tre giorni del Condor", un classico diretto nel 1975 da Sydney Pollack ed ispirato ad un romanzo di James Grady dal titolo "I sei giorni del Condor". E ciò suggerisce come Pollack, uno dei registi di spicco della new Hollywood, avesse azzeccato nell'accorciare il lasso di tempo dell'azione poiché un film di spionaggio non può andare per le lunghe e quindi, asciugando un po' il plot, è bene che la durata di una simile pellicola non superi 120 minuti per non annoiare lo spettatore (Hitchcock docet).

Vediamo pertanto il protagonista Joe Turner (un ottimo Robert Redford), impiegato nella sezione newyorchese della CIA e con il nome in codice Condor, svolgere diligentemente il proprio lavoro di analista di testi vari alla ricerca di spunti interessanti, codici segreti o trame nascoste. Un lavoro di ricerca certosina, abbastanza soddisfacente per le sue aspettative. È al momento in attesa di un riscontro da parte della direzione in riferimento ad un suo report inviato a chi di dovere. Senonché, proprio una mattina in cui si era recato in una vicina caffetteria per un breve coffee break, al rientro in ufficio scopre che i colleghi rimasti sono stati uccisi da un commando di agenti in incognito. Superato il primo sconcerto, Condor capisce al volo di essere pure lui a rischio (forse proprio per quel suo report..) e, con l'aiuto di una donna di nome Kathie, sfugge agli assassini che lo braccano e scoprirà che, dietro al complotto, si cela un settore deviato della stessa CIA. La salvezza è un'incognita e non è proprio detto che il nostro eroe possa farcela, andando a consegnare un dettagliato resoconto delle sue peripezie a giornali prestigiosi..

Il film, dal ritmo incalzante e ricco di colpi di scena, si avvale non solo dell'ottima recitazione di Robert Redford e Faye Dunaway ma anche di un indimenticabile Max Von Sydow che, nei panni di un killer della CIA, riesce ad essere così inquietante da risultare temibile non appena entra in scena.

A ciò si aggiunga, fra i punti di forza dell'opera, il richiamo ad una fase storica ben precisa ovvero gli anni '70 del secolo scorso in cui gli USA erano alle prese con una seria crisi delle istituzioni, dopo il ritiro dalla guerra nel Vietnam e l'affare Watergate. In un simile frangente storico, in quale istituzione pubblica riporre fiducia? Certamente neppure nella CIA e, come efficacemente reso nel film, gli stessi impiegati nella struttura dovevano temere per la propria incolumità. Non era neanche un'esclusiva americana, dal momento che in quegli stessi anni l'Italia era afflitta dalla cosiddetta "strategia della tensione" e non era mera finzione narrativa l'attività di settori deviati dei nostri servizi segreti. Insomma, non erano proprio ambienti raccomandabili per quanto risultavano torbidi ed opachi..

Ma se questi sono gli aspetti legati a quel momento storico e politico, c'è anche da notare come il protagonista e i personaggi di contorno siano sostanzialmente in balia di forze superiori o, per meglio dire, persone in carne ed ossa intente a condurre sporchi giochi di potere sulla pelle di altri ignari, in pericolo di vita. Mi pare proprio che oggi nulla sia cambiato: guerre, stragi e follie omicide continuano qua e là, come prima e più di prima. E aveva ben ragione, al riguardo, Bob Dylan a comporre un brano dal titolo "Only a pawn in their game" per stigmatizzare una così tremenda condizione umana.

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