"Sasso che rotola da una collina non conosce mai la sua traiettoria": il batterista del trio in fiamme di Yosuke Yamashita, l'uomo del pianoforte va da solo e spinge il jazz giapponese oltre la sottile linea tra l'umanamente concepibile e l'irrealizzabile, tra l'incredibile e il (quasi) mostruoso sposando con il suo quartetto zen e coltrane, uomini e dei.

Batterista con pericolose manie progressive, come detto, ha modo di picchiare le pelli nella peggiore (migliore) delle accademie free-bop possibili, dove l'incontro tra avanguardia e storia è una tuta di metallo e un uomo al comando che suona un piano mentre il medesimo viene dato alle fiamme.

Quello che è stato definito come "melodic drumming" viene qui letteralmente trasportato oltre la barriera del suono, nella dimensione aurale dove sono conservate le cataratte delle piogge e dove riposano le fucine dei tuoni. "Flush Up" è il soffio, live, 1977, superiorità nipponica così evidente da creare seri imbarazzi dall'altra parte di Bering, riducendo letteralmente in poltiglia il blasone degli originali. Un capolavoro, unico nel suo (vasto) genere: elevazione spirituale, percussione che diventa meditazione, solos dove impossibile è contare i tocchi charleston-snare-kick (che nei climax sono forse 10-15 al secondo sentire per credere) e una compattezza d'insieme leggera come aria anche nei momenti in cui i quattro salgono in cielo e a chiunque verrebbe voglia di spaccare il suo strumento. Niente, disciplina di ferro e improvvisazione, la perfezione degli opposti.

Esecuzione di furibonda precisione, qualcosa di inaudito che spazza via il pubblico lasciandolo quasi senza applausi; quando Takeo sale letteralmente sui tamburi pur continuando a sfiorarli (11°minuto) "Flush Up" è giusto oltre la metà. Dopo 18 minuti esplode il finale e restano nella memoria solo i brandelli dell'esecuzione, solo il ricordo di una frase, il senso dell'haiku.
Avanti: "Softly As in A Morning Sunrise", e "Yellow Bear" sono poesia suonata, il sax di Tomoki Takahashi è un fringuello, Moryama colora di rugiada percussiva un sonetto che piano e contrabbasso spennellano con respiri, non note. Non è una questione di tecnica bruta: qui c'è qualcosa di devoto al culto della mente ed alla ferma convinzione che l'uomo possa, con il suo potere interiore fare letteralmente di tutto.

Ancora una volta, i numeri uno, ancora una volta la leggenda in poco più di mezz'ora. Sentirlo, amarlo e spaccarsi la testa come successe a me, imparare, ancora amare e quindi vivere. Il jazz a quest'altezza è tempo nella dimensione più pura, personale, heideggeriana.

Siate puri: "se capisci una cosa nella sua interezza puoi capire ogni cosa".

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