Ha firmato le colonne sonore di oltre una decina di film di Spike Lee: a partire dal 1991, con “Jungle Fever” sino al recente ”Inside Man”.
Flow, realizzato lo scorso anno, è infatti il primo disco del trombettista statunitense che mi capita di ascoltare.
Secondo album (dopo “Bounce” del 2003) per la Blue Note. Stando a quanto leggo, l’approdo di Blanchard alla storica etichetta pare abbia segnato una svolta nel suo percorso. Delineata anche da alcuni cambi nella band che lo accompagnava da tempo:il basso passa dalle mani di Eric Harland a quelle di Derrick Hodge, trova posto la chitarra di Lionel Loueke, che firma anche alcuni dei brani. Completano la formazione Brice Winston al sax, tenore e soprano, Kendrick Scott alla batteria ed Aaron Parks al piano.
Quel che appare evidente sin dall’inizio è l’aderenza del titolo alla musica che stiamo ascoltando.
Perché di un flusso si tratta: che si distende ora sul versante più memore di matrici hard bop, ora nella suggestione di ritmi e colori africani, senza negarsi le possibilità di un’intelligente uso della programmazione di parti elettroniche o la libertà di spazi di improvvisazione.
La tromba di Blanchard mostra di “trovare” il proprio suono in ognuno dei contesti, contribuendo alla cangiante fisionomia del flusso.
Fisionomia che trova ulteriore elemento di coesione, pur nell’ampio ventaglio dispiegato, grazie alla mano di Herbie Hancock in veste di produttore.
“Flow”, la title track, suddivisa in tre parti la prima delle quali posta in apertura (le altre l’una nel centro e la terza quasi in chiusura) inizia con un minimo battito dei legni, sul quale il morbido giro di basso costruisce l’anello sul quale il suono chiaro di Blanchard rilascia frasi avvolte, a tratti, da lievi tappeti digitali.
Il tessuto tende a stratificarsi, entra in campo la chitarra, la batteria passa in primo piano scaldando l’ambiente nel quale la tromba rinvigorisce e velocizza il proprio soffio. Ma la limpidezza del suono resta assoluta, sino allo sfumare del brano.
Ma è nell’intro di “Wadagbe” che incontriamo una delle anime del disco.
E’ Africa quella disegnata dai tocchi della chitarra (quasi a simulare un balafon), suggerita da fields recording e dalle liquida sostanza digitale. Ma lo è soprattutto quella cantata dalla voce dello stesso Loueke, su questo fluido sonoro che sfuma anch’esso per aprirci il varco dentro gli oltre 10 minuti della vera e propria Wadagbe (firmata Louake)
Dieci minuti solcati da spazi di rarefazione che si condensano poi in accelerazioni concitate, interplay dinamico e fantasioso ed accenni tribali, mutamenti di “ambientazione” e leggeri passaggi “cantabili”, sino ad un finale nuovamente magmatico, inghiottito dallo sfumare della coda.
Ritroviamo la morbidezza evocativa del suono della tromba nel tema suggerito in apertura del brano che segue: in “Benny’s Tune” i tasti passano sotto le dita di Herbie Hancock, e il dialogo tra questi e Blanchard, sostenuti da una “delicata” sezione ritmica, con i rari ma raffinati inserti della chitarra, ci consegnano una ballad splendida.
Hancock tornerà a sedersi al pianoforte in un altro episodio, “The Source”, firmato dal batterista Kendrick Scott, dispensando piacere in forma di grappoli di note nel cuore di quegli otto minuti, dopo la parentesi “ambientale” e notturna di “Flow, Part.2” attraversata da scie digitali.
Ma Aaron Parks, il titolare, si dimostra degno di nota in più di una occasione, apponendo anche la firma ad “Harvesting Dance”, il lungo, articolato brano posto al termine del disco, che vede una distesa ambientazione echeggiante visioni ispaniche accendersi di bagliori elettrici nella chitarra di Loueke.
Un disco ricco, nella varietà di soluzioni e suggestioni, e fresco, moderno, molto godibile ma affatto scontato. Ed un suono, nella tromba del leader, capace di attraversarlo con eclettica classe, lasciando intuire diverse possibili sviluppi, che sarà interessante seguire.
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