In un bel posto, a dodici chilometri da Bruxelles, in mezzo a dell'ossessivo e gelido vento, sorge il Royal Museum for Central Africa. Qualcuno mi ha detto che, entro la fine del 2010, l'allestimento attuale, reo d'esser considerato sottilmente razzista, sarà storia passata e così mi sono detto che, magari, antropologicamente parlando, a queste condizioni, poteva anche esser interessante. Ho tentato, ci sono andato.
Elefanti fatti di pezzi di corteccia attendono all'esterno, all'interno una serie di esposizioni - le solite: bastoni, pugnali, maschere, animali - così buttate alla rinfusa e così poco degne d'attenzione che non hanno nemmeno una minima didascalia, d'altronde cosa c'è da dire su degli incivili che dormivano sulla paglia!?!
Il pubblico, a queste condizioni, ovviamente, è composto perlopiù da bambini delle elementari che si stampano con le guance sui vetri per osservare animali impagliati o che rimangono a bocca aperta di fronte al ninja tigrato, una specie di ninja centroafricano vestito di quelle fantasie tipiche delle burine che affollano gli studi televisivi italiani. Un ninja che rispetto alla concorrenza asiatica ha pure il vanto della virilità, ma si sa: la paccottiglia asiatica va forte e il tutto a discapito della qualità.
Non una parola, comunque, su Leopoldo II, non una parola sulla guerra civile divampata per il coltan, non una parola sullo Zaire, non una parola su Baldovino, niente. Tutto quello che riguarda l'Africa inizia e finisce con lo sguardo dei belgi. La storia comincia quando arrivano, la storia finisce quando se ne vanno. Semplice ed indolore se nasci nell'emisfero giusto.
Mentre esco, con il veleno che sale, vedo questa coppia mista, con le figlie che gli corrono attorno, aggirarsi tra i giardini del museo. Penso prima a Spike Lee, "Jungle Fever", un po' mi vergogno e cambio pensiero, così passo a Carlo Pisacane e a quando scrisse che la democrazia è addormentatrice, meglio il nulla prima della rivoluzione.
- Se fossi un negro, cristo - mi gira per il corpo così, mentre il vento continua a rompermi le palle e mentre le figlie del tale uguale a Samuel L. Jackson ed in coppia mista continuano a saltellare - se fosse per me, glielo farei saltare in aria questo museo del cazzo. Non c'è una parola sul Ruanda. Non una. D'altronde perché dovrebbe esserci se non ce n'è una sul Congo? L'Africa termina nel 1960, con "l'anno dell'Africa". Che umorismo, stronzi. - mi dico, poi cerco di non pensarci e me ne vado mentre il vento continua a rompermi le palle. Con questo vento qui è impossibile tutto.

- Insomma, quale è la vera differenza tra un Hutu ed un Tutsi?
- Stando ai colonialisti belgi i Tutsi sono più alti e più eleganti. Furono proprio i belgi a creare la divisione.
- Come?
- Selezionavano le persone: quelli col naso più piccolo, la pelle più chiara... di solito misuravano l'ampiezza del naso. I belgi usarono i Tutsi per governare il paese e quando se ne andarono lasciarono il potere agli Hutu e ovviamente gli Hutu si vendicarono dell'élite Tutsi per tutti gli anni di repressione.

"Hotel Rwanda" è un film del 2004. Non è interessante, il buono è buono e il malamente è malamente; non è stilisticamente avvincente; non incuriosisce per i personaggi; non ha un impianto narrativo di quelli che ti fa rimanere lì, fermo, a sbavare senza chiudere gli occhi nemmeno per un secondo. Non è bello, almeno non lo definirei bello, ma è necessario. Necessario per portare alla luce, alla gente comune, agli ottusi, ai mediocri un pezzo di storia appena passato e passato inosservato, tra le nostre tavole ad orario di cena, tra un cucchiaio di minestra ed un bicchiere d'acqua.
Un milione di morti in cento giorni - dall'Aprile alla metà di Luglio del '94. Diecimila morti al giorno nell'indifferenza generale, efferatamente, morti di machete, un fiume di sangue, mentre i francesi vendevano armi all'esercito ruandese, mentre l'ONU aveva altro a cui pensare. Così tanti morti che non riesco ad immaginarli, così tanti che sembrano finti, indeterminati, non colgo, cifra tonda, boh, ma poi va così - dati ufficiali alla mano: una Napoli intera sgozzata in cento giorni. Rabbrividisco. Un morto ti cambia la vita, ma cosa resta della tua vita dopo un milioni di morti, dopo diecimila morti al giorno?

"Hotel Rwanda" tratta di Paul Rusesabagina e dei suoi sforzi, del suo dolore nel vedere il dolore del suo popolo e della corruzione che, incessantemente, deve portare avanti per riuscire a salvare la sua famiglia e delle persone, niente Tutsi o Hutu, ma persone, quindi Tutsi e Hutu indeterminatamente. Sbagliando a contare, nel trambusto di quei giorni: ottocento persone penserà lui, facendone mancare quattrocento all'appello e stipandole, tutte, nell'Hotel des Mille Collines, sede della Sabena a Kigali. Paul Rusesabagina il buono, buono al 100%, tanto che si accorge d'essersi piegato al volere "bianco", d'essersi lasciato convincere ed avvincere dallo "stile", dal benessere occidentale. Paul Rusesabagina che diventerà quel che è solo accortosi d'esser nemmeno un negro, ma soltanto un africano e come tale di non fregare niente a nessuno. Poco più che immondizia. Anzi, poco meno.

Un film sugli orrori del colonialismo e fatto, sfruttando la grammatica dell'uomo medio, per far comprendere all'uomo medio che il suo culo poggiato al caldo sta così bene perché quello di qualcun altro sta così male. Come in un disco dei Crass.
Un film su di un genocidio che genocidio non è dato che Tutsi ed Hutu non sono un gruppi etnici, razziali, religiosi reali, ma solo il frutto della fantasia del belgi, perché, si sa, ogni mondo è paese e se non ci fossero valloni e fiamminghi di cosa camperebbe la nostra satira belga? Ma sì, facciamolo pure qui, si divertiranno. Zacchete.
Un film su di un genocidio di serie B, forse, addirittura, di serie C considerando che gli armeni, pur non fregando niente a nessuno, hanno un loro giorno della memoria. Oh, ma sono africani, cazzo vuoi!?!, mica possiedono "la propaganda". Possiedono solo sé stessi. Anzi, nemmeno, ma soprattutto: dov'è l'Armenia?

Uno spera, ma non c'è nulla di buono in tutto questo. Nulla. Niente su cui sperare.
Oggi, Paul Rusesabagina, prossimo ai cinquantasei anni, vive riparato in Belgio. Reiterazione del dolore, suppongo, come andarsi a comprare le scarpe in fabbrica, anziché al negozio. Scarpe di cemento armato, comodissime per solcare il fondo. Ecco, spero - questo mi tocca sperare - che almeno abiti a Matonge.

 

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