Ricordo anni fa quando con un mio caro amico ci rigiravamo tra le mani il cartonato ed ironizzavamo sulle tre belle donne… “Bwah, che pustolose!”.

Lo so che spesso la gente critica chi inizia a parlare di ricordi, ma la buona musica vive di essi, è ciò che la fa amare perché richiama splendidi o tristi momenti della propria vita… tant’è che di ricordi voglio parlare. Apro la custodia: all’interno, seri come due cavalieri jedi su Tatooine, due barbuti uomini s’aggirano per i mille ocre che colorano una fantomatica “Ruelle de la Fonderie”. Bello, no?

La prima volta che sistemai il vinile sul piatto (punto punto punto), la puntina correndo tra i solchi (linea linea linea) portò strani suoni ai miei orecchi (punto punto punto): allora non capii, ora so cosa fosse, quell’ossessiva richiesta d’aiuto in morse apre la prima vera canzone dei ’70 della mia vita, “Lucifer”. Giri ossessivi di una melodia che ti entra in testa e nel cuore: per me (abituato al seppur ottimo cantautorato nostrano) era cosa nuova. Col senno di poi, è un’ottima strumentale, tipicamente Parsoniana, con l’inquietante reiterazione del medesimo tema, strada già sperimentata nei lavori precedenti (un esempio è “The voice”di “I robot”). Allora, semplicemente, mi piacque.
Non so perché, aspettai giorni su giorni prima di ascoltare altre tracce… ma ricordo gran curiosità nel conoscere la voce di questo Alan Parsons.

La cosa strana, ma risaputa, è che con dieci loro album ormai all’attivo, la sua voce ho ancora da decifrarla bene, tant’è camuffata, quando c’è, da cori e vocoder vari (mamma, che super allitterazione…), ma vai a capire allora perché fosse un progetto…
L’acuta voce che scoprii essere di Lenny Zakatek introduce “You Lie Down With Dogs”, strano e godibile brano, dai coretti filtrati e dalle tipiche schitarrate da ballatone. Il senso di sotterfugio è dato anche dal testo (“Sei una donna stupida, ma ti amo”, “Ti corichi con dei cani, alzandoti con le pulci. Smonta e trovati un altro amante”). Molto bello il giro che introduce il brano seguente, sulla stessa falsa riga: “I’d Rather Be A Man” vede alla voce il bassista David Paton e m’ha sempre confermato l’idea di un’ossessione, o perché no di un’attesa (Eve, oltre ad essere un nome, significa vigilia) per Dio-solo-sa-cosa… si parla di una donna, ancora, come in tutto l’ellepì, una donna dall’animo corrotto da cui l’uomo prende le distanze; molto liberamente, il sunto è: “Preferisco essere un uomo piuttosto che macchiare la mia anima come te; dai la colpa all’albero delle mele, ma non mi inganni: i tuoi jeans sono attillati, ma il culo è flaccido. Preferisco essere un uomo perché non vorrei essere come te.”
Si volta pagina… Segue “You Won’t Be There”, bellissima e dolce ballata eseguita da Dave Townsend, essenziale di batteria e delicata di chitarra. Stavolta si parla dell’altra faccia della donna, ed è una canzone d’amore… “Perché, se mi ami, devi lasciarmi? Quando avrò bisogno di te, te non ci sarai.” Il brano chiude con una specie di grattugia non meglio identificata che collega ad esso l’ultima traccia del lato, la bellissima “Winding Me Up” (alla voce Chris Rainbow, bravo esecutore di molte perle del Progetto di Alan), a chiudere quest’ipotetica triologia del gentil sesso. Questa volta il sentimento è quello, come dice il titolo, dell’eccitazione: l’uomo è confuso, fuori di donna per via della donna, ma non perché essa sia particolarmente forte, bensì perché l’ha colto di sorpresa, smascherando il suo comportamento falso.

Si gira il vinile, ma l’angoscia dell’essere maschile continua: ancora Lenny Zakatek, gran bella voce, nei panni di colui ch’è combattuto dal non voler legarsi ad una donna e a soffrire dannatamente quando passa le notti da solo (“Io sono dannato perché ti amo…”). Musicalmente, gran bella canzone, con Ian Bairnson (il fido chitarrista) e Stuart Elliott (batteria) in gran forma.
Ma la donna come la vive questa situazione? Unico album in cui avviene, al microfono lo racconta proprio una lei (una signora lei, Clare Torry direttamente dai mirabili gorgheggi del lato oscuro della Luna) ad incitare la propria metà del cielo, affinché viva appieno la sua vita, osando di più e non permettendo all’uomo di farle girar la testa…
E se uomo dev’essere, che vi sia sempre un “Secret Garden”: la bella strumentale apre un oceano di orizzonti sull’amore e conduce all’ultimo brano, ancora con voce femminile (la brava Lesley Duncan). “If I Colud Ch’ange Your Mind” è una struggente ballata, in cui la malinconia per ciò che non è stato rode il fegato: “non posso negare di essere sola da quando te ne sei andato… Oh, se solo potessi farti cambiare idea…”

Bellissimo album, in definitiva; concept ancora una volta tra due mondi opposti
come lo fu “I robot”, a sottolineare ancora una volta l’ottimo lavoro di Alan Parsons e del fido Eric Woolfson, sfociato in almeno cinque ottimi ellepì negli anni settanta. Ricordo una certa soddisfazione già dai primissimi ascolti. Ricordo la gioia di mio padre che me li fece conoscere.
Ricordo sempre, e con piacere.

Con cura ripongo il vinile nella busta nerissima e richiudo il cartonato: le tre belle donne con le loro reti e le loro pustole ricordo di chissà quale evento sono ancora là, nella loro attesa…

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