Va bene che la vita quotidiana a noi comuni mortali riserva nella maggior parte dei casi più grattacapi che altro; però, se le avversità uno le affronta con un sorriso discreto, magari è meglio.

Tanto per dire, tutti questi che imbracciano una chitarra solo per raccontare all’universo mondo quanto sono soli e incompresi e sfortunati e quanto soffrono la loro condizione, con un’espressione da funerale che suscita più imbarazzo che compatimento, io proprio non li reggo. E mi sconforta che ormai questi figuri sono la maggioranza; (in)consapevoli, loro e che gli concede un’opportunità, che Nick Drake è morto e sepolto e non è dato sapere se e quando risorgerà dal suo sepolcro.

Che qualcuno sia davvero in grado di sostenere la parte e così risultare convincente è fuori di dubbio (una certa Snail Mail su tutti), ma il qualcuno in questione in genere affoga in un mare di sconcertante banalità.

Ben vengano allora i Beths, da Auckland, Nuova Zelanda.

Dagli anni ’80, in pratica dalla fondazione della Flying Nun, la Nuova Zelanda è emblematica per un certo modo di suonare pop poco convenzionale, a partire dall’avanguardia Chills giù giù fino all’ultima fila del plotone che, con qualche piccolo riscontro, si spinse fino ai nostri lidi qualche decennio fa.

I Beths quella tradizione la riprendono in pieno ma la colorano con tinte più adatte ai tempi che corrono, fino a plasmare un power pop ugualmente debitore delle Breeders e dei Pavement più accessibili, per intenderci un po’ «Cannonball» e un po’ «Summer Babe».

Nulla di nuovo ma chi se ne importa, ne risulta qualcosa di piacevole e coinvolgente e, soprattutto, per come la vedo io, estremamente cantabile: per dire, le uniche canzoni di Breeders e Pavement che talvolta mi ritrovo a canticchiare ai fornelli, con un ferro da stiro in mano e in altre amene situazioni, sono proprio le due succitate; le canzoni dei Beths, da qualche mese a questa parte, le canto tutte, inevitabilmente; d’accordo, “cantare” è una parola grossa, ho difficoltà a imparare e ricordare i testi, canto facendo la-la-la-la-lalala-laaaaaaaaaaaa.

Musica che mi mette allegria.

E qui arrivo al busillis alla deprimenza in musica di cui blateravo all’inizio.

Perché è vero che i Beths suonano allegro però i testi sono, se non proprio tristi, quanto meno malinconici, pieni di dubbi, rimorsi e rimpianti, incontri mai avvenuti e abbandoni, tante cose che sarebbero potute essere e invece non sono; a partire dal titolo dell’album – il mio io futuro mi odierà – che qualcosa vuol pur dire.

E proprio questo contrasto happy/unhappy tra quello che Beth canta e come Beth lo canta e suona la chitarra è per me la cosa bella di questo disco: appunto come dire che le sfighe quotidiane, dopo che ci hai inciampato, ti ci può scappare una risata o almeno un sorrisetto.

Mi piace la “filosofia” che ispira «Future Me Hates Me», mi piace ancora di più la sostanza del discorso: da «Great No One» a «Less Than Thou» è una cavalcata di chitarre lasciate libere di correre veloci e rumorose, anche se il momento che preferisco è quella «River Run Lvl 1» dove le chitarre crescono pur sempre da un delicato arpeggio alla distorsione rocchistica, ma il ritmo è quello lento della ballata, la sintesi perfetta delle diverse anime dei Beths; che poi è quella di un disco per l’estate uscito quando l’estate sta declinando.

Bella cosa riuscire a sorridere quando intorno va a rotoli, quanto meno rinfrancante; proprio come questo esordio dei Beths che, pur essendo finita l’estate, continuerò ad ascoltare ancora per molte stagioni, nessun dubbio per quanto mi riguarda.

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