I super-gruppi, le formazioni che nascono cioè dall'"estrazione" di musicisti di varie band, poche volte lasciano ricordi indelebili negli annali del rock, sfornando spesso lavori molto tecnici ma di relativo spessore artistico. Le cose non stanno esattamente così nell'album in questione, omonimo debutto della band fortemente voluta da un tale Anton Fiers (ex Feelies, ex Lounge Lizards, ex Pere Ubu... può bastare?...), grandissimo batterista che nel 1983 riunì nomi del calibro di Arto Lindsay e John Zorn (tanto per citarne due) per dare sfogo a tutta la sua straordinaria fantasia ritmica nel progetto "Golden Palominos" (nome preso in prestito da una razza di cavalli dalla criniera dorata, sfortunatamente in via di estinzione).
Il perno dell'album è quindi il ritmo, non ci sono storie. Fiers prende le redini del gioco incalzando con bizzarri tempi le trovate avanguardistiche dei suoi "ospiti" d'eccezione. L'iniziale "Clean Plate" è un ballabile che ruota attorno a percussioni pseudo caraibiche e a linee di basso esageratamente funky, accompagnate dallo pseudo canto di Lindsay, quasi un "rap brasileiro"! Il condimento di questa già di per sé succosa pietanza, sono una serie innumerevole di dissonanze e rumori di fondo non bene identificabili ma mai "disturbanti". Le tracce successive abbandonano in parte il ritmo ballabile. "Hot Seat" segue ancor più marcatamante la strada della sperimentazione (un esperimento di gargarismi vocali ed elettronica), mentre "ID" è una prova esasperante di campanelli monotoni sferzati da una batteria marziale. Brillante esempio della fantasia di Fier è il dance-floor degenerato di "Coock Out", una "dimostrazione" al DMX accompagnata soltanto da un basso monocorde e da misurati interventi elettronici. Delizioso.
"Golden Palominos" lascerà un segno in quel momento di rock "negativo", degno di stare accanto ai lavori più riusciti, come imperdibile esempio di avanguardia "travestita" ma soprattutto come "elogio del ritmo".
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