Altra perla rara di questo gruppo capeggiato da Ray Davies. E dire che è una mezza fotocopia del precedenete, la formula non cambia: canzoni brevi, arrangiamento sognante, testi sottili e taglienti. Forse non così perfetto, perchè 1-2 canzoni stonano leggermente dal resto; e non per la differenza di arrangiamento, o di testi, ma semplicemente per le differenti sensazioni che trasmette. Ma comunque resta uno dei picchi della musica pop, e non solo.
Ogni melodia sembra venga interrotta e poi ripresa dal testo delle canzoni, quasi fosse un dialogo tra le due parti, che non si fondono, ma si integrano. Ed è incredibile quanto poco sia stato detto di un gruppo che merita l'alloro per la facilità di composizione, per la varietà dei temi, per la voce soffusa di Davies. Ogni canzone di questo album è un inno a sé stante, per quanto ognuna sia collegata a un'altra. Ogni canzone crea un mondo intimistico, con uno stile che caratterizzerà Ray in (quasi) ogni componimento. Davies scruta all'interno di ogni canzone cercando un che di magico che la caratterizzi e la renda unica.
Ed è una fortuna che Davies sia riuscito a trovare una collocazione per ogni canzone, seppur nella sua testa, penso, perchè ascoltare quest'album ti trasporta in un mondo a metà tra fisico e metafisico, ti lascia sospeso tra la voce e l'arrangiamento, ti blocca lì, sicuro di aver ormai raggiunto il tuo paradiso.
Mentre galleggi a mezz'aria in questo strano mondo, ironico e stralunato, fatto di serve che si travestono da principesse e così stanno bene, di vecchie glorie dell'impero britannico e uomini di stato, di terre lontane di felicità, ti rendi conto di quello che stai vedendo: la malinconia di un mondo irrealizzabile, dove non c'è posto per le metropoli, i ristoranti affollati, le città grigie. Un mondo che non è a misura d'uomo, che non è affar suo. L'uomo è riuscito solo a toccarlo per un istante, ma poi quello è scappato, si è perso nella parabola del consumismo e del sogno americano. E l'uomo lo ha seguito ciecamente.
Il disco si apre con la splendida "Victoria", critica feroce contro la rigida morale vittoriana, dove il sesso era tabù e non c'era giustizia sociale; sembra di tuffarsi dentro un racconto dolceamaro di Hardy, per la delicatezza del tocco e la rabbia del testo, opposta alla spensieratezza apparente della melodia. Poi appare dal nulla "Yes Sir, No Sir", un'ouverture degna di White Rabbit, una sorta di marcia verso la libertà, negata dagli ordini imperanti delle autorità. Libertà però irraggiungibile, some "Some Mother's Son", che narra di un figlio qualunque di una qualunque madre, che parte per la guerra e lì muore, ne è la prova. E di lui rimangono solo fiori, e una madre a ricordarlo.
Poi giunge "Drivin'", altro attacco alla guerra, ma vista come genocidio, sterminio di massa nel mondo, che lascia spazio a "Brainwashed", sintomo di alienazione dell'individuo, che sembra muova la bocca per dire le sue prime parole, sembra che abbia imparato solo ora a parlare. Ora è il turno di "Australia", imperante ritornello, che spazia dai toni ritmati di inizio canzone a un finale che spiazza l'ascoltatore, pseudopsichedelico con rintocchi blues.
Concluso il lato A, l'ascoltatore può finalmente ascoltare il capolavoro dell'album, da ascoltare sottovoce, perchè la parabola contro il consumismo e le strade tutte uguali (siamo nel 1969, ricordiamolo) ha più significato. Mentre lentamente sfugge questa canzone, parte "Mr Churchill Says", ritratto ridicolizzante del Primo Ministro, e poi a ruota "She Bought A Hat Like Princess Marina", che narra di una povera donna che gioca a fare la ricca signora. Quindi si giunge al secondo picco dell'album, "Young And Innocent Days", dove i ricordi d'adolescenza di condensano come nuvole di zucchero, in cui insieme al rimpianto per quei giorni, compare una critica velata a quei magnifici anni innocenti. E' ora il momento di "Nothing To Say", classica ballata alla Davies, e il disco si chiude con "Arthur", l'uomo comune, già cantato in "Do You Remember Walter", per il quale i giorni felici sono passati.
Questo è un disco che lascia l'amaro in bocca, lascia gli occhi velati da un leggerissimo strato di nebbia, da ascoltare in uno di quei pomeriggi freddi, soleggiati, quando ancora il cielo ti sorride e tu aspetti l'estate. O l'inverno, a seconda dei gusti.
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