Una di quelle cose che succederebbero di sicuro in una realtà parallela, in cui il mondo andasse per il verso giusto, sarebbe vedere tributata ai Muffs la fama che si meritano. Ma purtroppo - almeno per adesso - siamo confinati a questa vecchia, monocromatica dimensione, in cui McDonalds puzzolenti spuntano nei centri storici delle città d’arte, in cui si bombardano villaggi di ignari civili per "portare la pace" e altre cose strambe accadono.
Tra cui il fatto che quasi nessuno s’incula i Muffs.
Come mai? Semplicemente perché sono intelligenti, ironici e difficilmente etichettabili?
Può darsi, tuttavia sta di fatto che se non li conoscete o non li amate non significa che vi manchi l'intelligenza, questo no, ma di sicuro vi state perdendo uno di quei piccoli-grandi piaceri della vita di cui parlava Philippe Delerm nel suo "Il Primo Sorso Di Birra". Il piacere di allungarsi in poltrona e di venire accarezzati dalla voce ruvida di Kim Shattuck, col suo broncio da eterna adolescente, cullati dalle melodie sbilenche di Just A Game e Funny Face, presi in giro dalle cantilene di Won’t Come Out To Play e I Need A Face o, in alternativa, spinti a pogare con l’armadio quattro-stagioni dalle quasi "acne-core" Agony e Oh Nina.
Ascoltare un disco dei Muffs è sempre un'esperienza intima e piacevole, nonostante la musica non sia in teoria quella adatta alla meditazione… Immaginatevi un disco dei Mr. T Experience o dei Green Day che vi faccia l’effetto di Suzanne Vega, e ci siete andati vicini. Aggiungete a tutto questo un'iconografia deliziosamente casalingo-americano-anni '50, evocativa di mamme con la permanente intente a leggere romanzi condensati del Reader’s Digest e di bambini in calzoni corti che giocano in cortile con automobiline di legno, e avete i Muffs.
Ho scelto questo disco in particolare, secondo della loro carriera e primo nella formazione a tre, che sopravvive ancora oggi (dopo la cacciata di Kriss Krass e Melanie Vammen) perché lo ritengo il più rappresentativo, e quello che si fa meno scrupoli nell'abbracciare i generi più disparati. Insomma, ci vuole coraggio per mettere accanto un brano come Ethyl My Love, incazzosamente garage, con chitarre sporchissime e la voce filtrata, e una romantica riflessione adolescenziale come I’m Confused.
Dalla prima all’ultima canzone il disco è dominato dalla voce ora dolce e acerba, ora furibonda, di Kim Shattuck, sex-symbol di ogni sfigato occhialuto universitario che si rispetti, e dalla sua chitarra dal suono irrimediabilmente vintage, supportata da una base ritmica grandiosa sia per fantasia che per tecnica. E dopo le tredici pistolettate si chiude con i due minuti dolcissimi di Just A Game. Si rimane in poltrona, con le emozioni ancora nell'aria, e quasi viene voglia di applaudire.
Il prezzo che i Muffs hanno sempre dovuto pagare per il loro anticonformismo è stato un modesto riscontro da parte del pubblico, ma a pensarci bene si è più contenti così, a non doverli dividere con troppa gente.
Diceva il motto dell'Università che ho avuto la (s)ventura di frequentare: "Chi sa, sa, e chi non sa, a suo danno"!
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