Gli anni Settanta paiono essere tempi duri per parecchi dei sopravvissuti agli anni d'oro del root. Gli standards di quel genere musicale si sono rammolliti, raddolciti, arruffianati, i modelli con cui confrontarsi sono indecenti, il successo arride agli immeritevoli. Inutile per le glorie come Chris Hillman ricalcare i dettami delle mode del tempo od insistere con nuovi supergruppi: questa joint venture col surf rocker John David Souther non dà i frutti sperati. Decisamente il compagno di avventure meno bravo, o perlomeno dalle ambizioni artistiche minori, inferiore anche a Rick Roberts del primo disco dei Flying Burrito Brothers senza Gram Parsons. Peggio pure di Dallas Taylor, il batterista dei Manassas con cui ha scritto una manciata di brani rock fracassoni e spensierati. Nella Souther-Hillman-Furay Band, comunque, l'onere della composizione è tutto individuale, e nessuno collabora con nessuno. Souther esce dalla sua pochezza nella sola "Prisoner In Disguise", una ballata col giusto appeal che cresce bene, ma su nove brani in totale i suoi sono ben quattro. Inutile provarci: non basta un rallentamento o un cambio di ritmo flautato e psichedelico nell'inutile boogie della titletrack perché si ritorni indietro alla Summer of Love.

Hillman poi piazza un country sghembo ed a dir poco privo d'ispirazione, ed il pensiero va a chi lo affiancò per scrivere la storia del country rock... Pretende comunque che sia estate, se non quella dell'amore perlomeno una come le altre, ed allora piazza il suo solito beach rock spensierato, ma la forma resta approssimativa. E' sempre e comunque colpa di questa malattia di dover tirare fuori per forza un disco all'anno, che tanto due canzoni tu due io, facciamo un disco ed un supergruppo. Il problema, anzi la domanda è: ma quante canzoni scriveva questa gente ogni anno? I tre brani di Hillman erano gli unici tre composti in quell'anno lì? E se invece erano i migliori di tutta una pluralità, quanto schifo dovevano fare quelli scartati?

In questa ansia di venir fuori col "proprio meglio" ecco invece il solidissimo Richie Furay, ex Buffalo Springfield ed ex Poco,  numero tre dei Buffalo quando Hillman era numero quattro-tre-due-tre dei Byrds, e numero uno dei Poco quando Chris era numero -due dei Burritos. Come i grandi quando sanno di trovarsi in ambienti dove non si può sfuggire alla ostentazione della mediocrità, Richie si limita a due soli interventi, i quali ovviamente fanno la fine delle perle dimenticate. Ispiratissima la ballad "For Someone I Love" ed una lezione di musica rock "On The Line".

Alla visione distorta di chi si accinga ad ascoltare "Trouble In Paradise" dopo tutti questi anni, il disco pare esser stato concepito per spillare qualche soldo ai fans dell'epoca d'oro, per non far prendere polvere alla chitarrina root, alla pedal steel, al dobro, ma il problema è ben peggiore, ed è che questo fu più o meno il livello qualitativo medio di coloro che negli anni settanta raggiunsero la gloria e la vetta delle charts. E i grandi del passato?

I grandi fecero bene a cercar di rimanerlo sempre. Ci furono quelli che lo capirono sin da subito e ci furono coloro che prima di capirlo dovettero, per così dire, impegnarsi maggiormente.

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