Reni lo volevano gli Who.

Il primo e importante debutto sulle scene gli Stone Roses lo fecero grazie ad un concerto benefico organizzato da Pete Townshend. I quattro mancuniani erano già sulla buona strada per la consacrazione a forza della natura del rock inglese.

Ma Reni (nickname del folle batterista Alan) era già su un altro piano rispetto al resto del mondo. Quando Pete lo sentí suonare rimase di sasso; Keith Moon si era reincarnato (parole sue). Gli propose di seguirlo, ma il berretto più famoso di Manchester declinò garbatamente: i Roses erano ormai la sua casa.

Accadde quindi che l'intreccio con la chitarra di Squire facesse nascere una leggenda, e la leggenda si chiamò Elephant Stone. Gli Eighties sono agli sgoccioli e il Madchester viene portato a galla a ritmo pulsante. John Leckie (storico produttore anche dei La's) e Peter Hook dei New Order producono questo primo singolo per la Silvertone.

Il testo è scritto a quattro mani da Ian e John attorno ad una ragazza che quest'ultimo ricorda con un filo di nostalgia. Le nuvole, il paradiso e il non riuscire ad atterrare. Se non atterri purtroppo cadi.

E quale altra definizione per questo pezzo se non un calcio in culo verso il paradiso? Il paradiso viene ripreso più volte nei testi del quartetto, così come molti altri riferimenti alla bibbia mescolati alla verve agrodolce dei Roses.

Perché Reni? Perché è sua la fantastica introduzione che precede il basso di Mani e la splendida tessitura di John. Coetanea dell'altrettanto eterea Just Like Heaven dei Cure, Elephant Stone va ascoltata al mattino.

Pochi brani come questo riescono a diventare degli inni alla vita; di quando ti alzi dal letto e sei pronto a fregartene del resto del mondo. Lo stesso mondo che necessita John, Ian, Mani e Reni più che mai.

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