Ogni epoca ha le sue mode, i suoi stili e le sue tendenze. Nel 1955 si sa, il bebop imperverrsava sulla cinquantaduesima a New York e  gente come Charlie Parker e Dizzy Gillespie avevano trovato proseliti e folle che li acclamavano. Miles Davis, invece, si stava rendendo protagonista del cosidetto Cool Jazz ed a breve il rock'n'roll avrebbe portato ad un radicale cambiamento nella cultura musicale del 900.

Nel 1955 Thelonious Monk è conosciuto per essere uno dei più significativi pianisti bop, ma a differenza dei compagni di merende (Bud Powell su tutti) il nostro non è esattamente quello che potremmo definire di primo acchito un virtuoso dello strumento (ma questo da un profilo squisitamente tecnico/esecutivo) ma anzi è un musicista in controtendenza con il pianismo dell'epoca. Lo stile di Monk si sa è frastagliato, pieno di questi cambi di dinamica improvvisi che conferiscono alla sua musica un aspetto quasi primitivo di indomito fascino.

Nel 1955 Monk dimostra ancora una volta il perchè della sua importanza all'interno del panorama jazz di ogni epoca, e lo fa con "Plays Duke Ellington", disco che omaggia uno dei padri di questo genere musicale, il Duca, Duke Ellington, di cui vengono riproposti alcuni cavalli di battaglia, probabilmente la scelta di Monk di realizzare un album tributo ad Ellington sta oltre che nella notevole influenza del duca sulla sua musica (e non solo) per pressioni discografiche, i discografici non volevano lasciare Thelonious completamente libero consci del suo estro esagerato (successivamente le cose cambieranno).

Come mai Monk è così celebre? Come già detto non è un virtuoso del pianoforte. Un virtuoso nel senso tecnico/esecutivo di certo non lo è ma un genio della composizione e dell'arrangiamento si, e se un musicista come Miles Davis (un fesso qualunque) dichiara nella sua autobiografia che il nostro  è stato suo maestro e gli ha svelato segreti di ogni sorta su quel campo sconfinato detto armonia musicale non dovremmo avere dubbi.

Altro aspetto fondamentale della musica di Monk è l'originalità nella ritmica, con uso di sincopi e ritardi la sua musica acquisisce un'essenza unica ed inimitabile.

Tutti questi ingredienti non mancano in "Plays Duke Ellington" a cominciare dal primo brano "It don't mean a thing(if it ain't got that swing)" brano talmente celebre che molti jazzofili lo avranno ascoltato mille volte riproposto oltre che da Ellington anche da altri mostri sacri (Armstrong e Fitzgerald tanto per fare un paio di nomignoli), qui però è completamente stravolto, lo swing tipico del brano muta,diventa più disteso, più soft ma nonostante questo talmente travolgente che nel giro di pochi minuti siete lì che lo riascoltate e lo riascoltate e lo riascoltate...

Grande spazio anche per altri capolavori dai toni più soft (Sophisticated lady e Solitude, quest'ultima in piano solo) e per il talento dei musicisti, un trio, già un trio che suona brani pensati ed arrangiati per un'intera orchestra!

Oltre al già fin troppo citato Monk al contrabbasso spicca Oscar Pettiford, grandissimo contrabbassista che all'epoca innalzò di molto gli standard tecnici del contrabbasso jazz e che qui da prova di grande gusto oltre che di bravura nei soli di Caravan, "It don't mean a thing" ed "I let a song go out of my heart".

Alla batteria Kenny Clarke batterista storico, personaggio di primo piano nel jazz dell'epoca che costruisce con Pettiford una sezione ritmica solida sulla quale Monk può poggiarsi con estrema facilità, per avere prova di ciò che dico ascoltate "I got it bad and that ain't good", parole d'ordine semplicità ed efficacia.

A dimostrazione del fatto che un grande artista può uscire dal cilindro un capolavoro assoluto anche non suonando proprie composizioni c'è questo album, io l'ho recensito per una mia necessità intima, un bisogno di condividere un pensiero che è giorno dopo giorno sempre più solido, più che un consiglio è un invito alla grande musica.

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