Una premessa necessaria: una grande storia non fa un grande film, su questo non ci piove. Ma Spotlight non è un lavoro che si adagia su una storia impegnativa e impegnata politicamente, al contrario arricchisce il nucleo centrale della vicenda con un corollario di questioni, argomenti, punti di vista, caratteri individuali. L’attacco, il j’accuse presente non è rivolto tanto ai preti pedofili: troppo evidente l’aberrazione, troppo inspiegabile la perversione per cercare di indagarla. No, il film ragiona su tutto ciò che si è sviluppato intorno a questo nocciolo di puro orrore: come dicono gli stessi giornalisti del Boston Globe, non interessa tanto il caso singolare, ma il sistema.

Sono quindi due i grandi temi sviluppati: il comportamento della chiesa (soprattutto nella persona dell'arcivescovo Law) e delle sue diramazioni nella società civile: il tentativo è quello di insabbiare tutto, di risolvere le cose privatamente, di tutelare ad ogni costo l’immagine delle gerarchie ecclesiastiche, dando in questo modo la possibilità ai preti perversi di perpetrare nuove nefandezze.

Dall’altra i giornalisti protagonisti: Spotlight è un elogio (tutt’altro che semplice e banale, vedi oltre) al giornalismo senza compromessi, che lavora a fondo per riuscire ad attingere alla verità. Se la chiesa pone ostacoli, i giornalisti tentano di toglierli. Non si discute dei fatti in sé, quelli sono assodati; la dinamica fondamentale del film è quella di avvicinamento o allontanamento dalla verità pura, cristallina, documentata.

La ricostruzione dell'inchiesta da parte degli sceneggiatori mira alla massima precisione: una scelta di indirizzo apprezzabile perché evita qualsiasi tipo di semplificazione. Questo non è un cinema che vuole semplicemente «rendere l’idea»; no, vuole spiegare nel dettaglio le cose, vuole far capire allo spettatore che spesso per attingere alla prova decisiva un dettaglio può fare la differenza. Un taglio quasi documentaristico, che tuttavia non scivola mai in una impostazione fredda e distaccata.

Merito della scrittura, che dà vita a un nutrito gruppo di personaggi caratterizzati in modo semplice ma perfettamente funzionale. Il merito ulteriore è quello di farli emergere dalla quantità oceanica di dialoghi esplicativi delle varie, complesse questioni dell’inchiesta, senza quasi nessuna sequenza inserita appositamente per tratteggiare il ritratto di un personaggio. I caratteri emergono dai dettagli che si annidano in sequenze che trattano d'altro: per esempio, mentre ci viene mostrato il nuovo direttore Baron che dà le sue prime indicazioni, ne comprendiamo anche il carattere schivo, i modi quasi impacciati. Lo stesso vale per gli altri personaggi, in particolare quello di Mark Ruffalo. Ma anche quelli di Keaton e Tucci sono ben scritti e interpretati altrettanto bene. Forse il meno convincente è quello di Rachel McAdams.

Questa impostazione poteva comportare delle debolezze, che vengono però tamponate con puntualità. Giornalisti eroici? Non proprio; perseguono certo la verità, sono schifati dagli orrori che vengono loro rivelati (ci mancherebbe), ma in fin dei conti stanno facendo soltanto un «ottimo lavoro». La verità non ha un valore in assoluto, ma soltanto funzionale allo svolgimento di un lavoro impeccabile; quindi, non basta avere le prove delle molestie di 14 preti, meglio aspettare di averle anche degli altri 70. Una critica molto velata inizialmente, che invece si fa più palese verso il finale, quando Robby Robinson si accorge di aver commesso degli errori diversi anni addietro. Questo fatto approfondisce il discorso sulla possibilità di attingere alla verità: spesso gli ostacoli sono innumerevoli, ma in altrettanti casi la verità è sotto gli occhi dei giornalisti, che però non riescono a vedere con lucidità. Oppure non hanno un direttore che vuole che vedano. Insomma, giusto riconoscerne i meriti, ma anche segnalarne le mancanze. Un film che è ben più articolato del semplice elogio. La verità è preziosa, ma deve emergere quando fa più comodo.

Altro possibile elemento di debolezza: la mancata trattazione del tema centrale, gli abusi. Non serviva argomentare per spiegarne l’orrore, ma era necessario un punto di appoggio emotivo su cui sviluppare tutta l’architettura razionale dell’inchiesta. McCarthy qui opera non tanto sulle immagini, quanto sul linguaggio. Come dice la stessa giornalista Sacha, in questo caso il linguaggio è decisivo. E quindi è sufficiente far sentire poche parole di confessione, con un paio di termini espliciti (e non i soliti eufemismi), per aprire tutto uno scenario terrificante che non ha bisogno di altre aggiunte. È uno spunto, che non si fa trascinare nella facile (e pure comprensibile) logica della commiserazione, dei toni lacrimevoli. Piuttosto, viene approfondita la psicologia delle vittime, arricchendo di ulteriori sfaccettature le vicende. Nei lunghi dialoghi c’è spazio per tutte le questioni: oltre a quella dei bambini, viene spiegata la reazione delle famiglie, spesso con frasi taglienti, che sigillano delle situazioni anacronistiche con amarissima ironia. Anche in altri passaggi, alcune battute sferzanti si fanno notare per la loro capacità di sintesi.

Due ore abbondanti molto impegnative: la scrittura è davvero eccellente e riesce a spiegare tutta la complessità della vicenda. Non rende soltanto l’idea, ma spiega anche nel dettaglio molte cose. Unico piccolo problema è legato alla quantità di nomi e riferimenti incrociati presenti; in alcuni passaggi, vista la mole di parole, si rischia di perdere qualcosa. La scrittura però non diventa mai confusa: può capitare di dimenticarsi un nome, ma non si smarrisce mai il bandolo della matassa.

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