Purtroppo al mondo c’è ancora gente che pensa che il reggae significhi (solo) avere i dreadlocks e farsi le canne. E, ancora peggio, c’è gente che pensa che il reggae inizi e finisca con Bob Marley. Per fortuna c’è anche gente che non la pensa così, altrimenti in questo momento Toots starebbe facendo il benzinaio a Kingston, rifornendo di gasolio le saltuarie Ford scassate, invece di suonare - per esempio - al club Apollo di Barcellona, facendoci felici e facendoci tornare a casa col passo molleggiato e il sorriso vacuo stampato sul faccione.
Alle 21:00 siamo già una bella coda davanti al pacchiano ingresso stile liberty, ragazzi di ogni parte del mondo, vacanzieri, lavoratori, turisti e residenti, tutti uniti per ricevere il corpo della musica in una mistica liturgia reggae. Io arrivo in anticipo, con il fido messicano Enrique e con Onno, il losco olandese con cui condivido la topaia… ehm… l’appartamento a due isolati di distanza.
Il concerto è programmato per le 21:00, ma si capisce subito che ce ne vorrà prima che si sia tutti dentro. Nel frattempo gli onnipresenti pakistani si danno da fare a smerciare lattine di birra Estrella Damm ai presenti assetati, tra cui Onno che se ne diluvia tre in pochi minuti, con un rumore di sciacquone.
Alla fine facciamo il nostro ingresso nel locale, quanto di più improbabile si possa immaginare per un concerto reggae: arredi orribilmente stile bordello-anni-20-di-terza-categoria, il tipo di posto dove puoi facilmente immaginarti aggirarsi prostitute cinquantenni con le trippe strette dai merletti e il rossetto spalmato con la cazzuola. Il palco fumoso e oscuro sembra più pronto ad accogliere un Tom Waits di periferia che non un esagitato sessantenne giamaicano con le treccine da mezzo centimetro, e, soprattutto, tutto nella sala Apollo sembra studiato appositamente per mettere a repentaglio la vita del pubblico. Cavi elettrici dall’aspetto sinistro e moooolto non a norma spuntano dappertutto, ci si aspetta di vederli anche uscire dalla spina della birra, e cose enormi quali pile di casse acustiche da 400 Watt e lampadari da due quintali pendono dal soffitto apparentemente fissati a invisibili fili di nylon. Ci vuole almeno una mezz’ora (e qualche supporto psicoattivo) per allontanare dalla mente preoccupata l’immagine di se stessi ridotti in tortilla.
Sgomitando tra la folla (veramente impressionante) mi faccio strada fino a sotto il palco, lasciandomi irrimediabilmente indietro Onno ed Enrique, che come previsto sono già gonfi come tacchini.
E alla fine arriva.
E’ vestito come Brian Johnson!!!!
Sul serio! Forse un po’ peggio: gilet di jeans con le toppe patchwork sulle spalle, canottiera aderente nera, catenone d’oro, jeans sformati da venditore d’auto rubate e orrendi mocassini neri lucidati. Il tutto a contenere il fisico smagliante di un ultrasessantenne che sembra davvero un ultrasessantenne. Come si fa a non volergli bene? Anche il resto della band mostra un look improntato all’informalità: il chitarrista è in tuta da ginnastica, le coriste sono carine ma non troppo, lontane anni-luce dalle tipiche maialone da concerto dei Guns ultima maniera, e vestite come per andare a fare la spesa; i tastieristi di sicuro non passano le loro serate in casa vestiti molto peggio di così. E questo è il bello. Perché tutti sono semplici, informali, e suonano con il sorriso sulle labbra, per tutta la durata del concerto. Si divertono loro per primi, e trasmettono questa positività ai presenti. In culo a tutti i "divi" alla Liam Gallagher, che si esibiscono con una faccia che sembra dire "cari amorfi pezzi di merda che avete speso una vaccata di soldi per sentirmi cantare, beccatevi ‘sta manciata di canzoni del cazzo, ché tanto manco ve ne accorgete che è tutta una scopiazzatura, e poi levatevi dai coglioni, ché più tardi vado a trombare come un facocero alla facciaccia vostra, perdenti!".
La musica, sin dalle prime note, comincia a far dondolare la testona a tutto il variopinto pubblico dell’Apollo, dagli skinheads quindicenni in anfibi e bretelle ai rude boys con camicia a scacchi e cappello floscio, fino alla specie più rappresentata oggigiorno, ovvero gli pseudo-rastoni-post-grunge-no-global-qualunquist che, uniti e accomunati nella lotta alla globalizzazione, sono ormai più globalizzati loro della Monsanto. A pensarci, era difficile guardandosi intorno vedere una sola persona che fosse vestita nella stessa maniera con cui probabilmente esce il resto della settimana… mah!
Comunque la musica resta, e i classici "Pomp And Pride", "Pressure Drop" e "Bim Today (Bam Tomorrow)" (totalmente irriconoscibile nel suo bizzarro arrangiamento "ambient") sono il trampolino di lancio per l’apice della serata, quella "Funky Kingston" che, quando finalmente viene annunciata dai suoi tre ostinati accordi, fa correre brividi di emozione sotto polo Fred Perry, camicie a quadretti, magliette della Trojan e canottiere strappate, indistintamente, e tutti iniziano a sgomitare come non mai, in una giungla di anfibi, dreadlocks, cinturoni e camicioni. Toots suda e si dimena, cento volte più vitale di almeno il 50% di cantanti e musicisti di oggi con 40 anni di meno sulle spalle, e alla fine lascia andare il gilet (non poteva pensarci prima?) esibendo la sua silouhette da botte di Barolo: indimenticabile!
Verso la fine arrivano l’immancabile "Monkey Man" e "54-46 (Was my number)", quest’ultima eseguita in maniera a dire il vero un po’ sconcertante, dato che Toots si scorda praticamente di cantarla, lasciando la musica scorrere per 8 minuti buoni e ricordandosi di fare ogni tanto "I say yeah!...That’s what I say!", legandola, sul finire, a "Struggle".
Ma, a parte questo piccolo inconveniente, le emozioni volano alte per tutta la durata del concerto, fino ai saluti finali, quando la band torna sul palco tenendosi per mano e inchinandosi tra gli applausi, come se invece di un concerto di Toots si fosse assistito a una rappresentazione del "Campiello". Belli, belli! Sono davvero convinto che se al mondo ci fosse più gente così si vivrebbe tutti più felici.
Le luci si accendono, la gente sciama fuori, armato di cucchiaino recupero Enrique e Onno, che mi guardano beati e mi chiamano "mamma": cosa gli avranno fatto a 'sti due da piccini? Dopodiché usciamo anche noi, e come ombre ci confondiamo nella notte di Barcellona… Buonanotte a tutti!
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