C’ è una madonnina di ceramica candida, in una casa di Civitavecchia, che piange lacrime scarlatte. Si stanno facendo ricerche sul DNA di quel sangue, ma qualsiasi approccio scientifico - che pretende quindi di essere veritiero - rasenta sempre la blasfemia.

Allo stesso modo, non si troverà una recensione veritiera di questo album da alcuna parte: se ne parla condannando l’Olocausto che l’ha ispirato e lodando il coraggio dei due musicisti di rock d’avanguardia che ne hanno affrescato la tragedia e il conseguente orrore, angoscia e rabbia servendosi a piene mani di tutto ciò che avevano a disposizione, quasi stessero componendo un’ insalata al chiosco self-service di McDonalds. Insalata che sarebbe risultata più gustosa se non si fossero lasciati prendere la mano dai caleidoscopici colori delle possibilità, se si fossero imposti dei limiti.

In realtà, questa “elegia apocalittica per le anime perdute d’ Europa” è nata dalla noia di bombardare il pubblico con il programma di musiche techno, ambient e dance che Richard Wolfson e Andy Saunders portavano in giro per l’Europa.
Il lupo, però, non perde il vizio: “Kaddish” è un carnevale rutilante di techno, di heavy metal, di ambient, di (squisiti) ritmi africani, di Laibach se Laibach non fossero cabarettisti, di folk e di altri stili sonori ancora. Ai quali tutti Wolfson e Saunders eccellono, ingenerando nell’ascoltatore il desiderio di far loro scegliere un formato e attenervisi per l’intera durata di un album. Se è sperimentale per gli accostamenti eterodossi, “Kaddish” è classico nella nobiltà delle movenze. E’ un’ opera, completa di recitativi (salmi e brani in ebraico) e di melodie popolari. Non mancano nemmeno gli incitamenti demoniaci registrati al rovescio. Ma non è da credere, se si legge che Eno ha affermato che è il disco più spaventevole che abbia mai ascoltato: si sa, Brian sta sempre con testa per aria. Dovrebbe smettere di suonarle ai più piccoli di lui, vero James?, vero Bono?, e fare più attenzione quando spiego Front 242 e Disco Inferno.

Qualcosa sta succedendo, qualcosa di importante e di terribilmente interessante: nella vastità dell’ impeccabile produzione, questi suoni senza inibizioni acquistano una risonanza mondiale. Davvero - per una volta - musica da suonare al massimo volume. Musica che, anche se intrigante, rimane stranamente remota. La sofferenza degli stranieri genera indifferenza: incomprensibili le parole, indifferente il dolore. Pur restando una presenza massiccia, a tratti talmente da essere ingombrante, “Kaddish” perde in bellezza e in potenza per voler essere troppo documento. E poi, se è da lì che viene l’ispirazione agli autori, è un vero peccato che dovremo aspettare la fine della terza guerra mondiale per un secondo album.

O il pianto di un’altra madonna.

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