C'è un momento in particolare, verso la fine, che illumina bene il senso di questa trasposizione. Odisseo fa sibilare la freccia attraverso i fori delle asce, è l'unico in grado di farlo, ma i Proci liquidano la cosa in due battute e tentano di scacciarlo da palazzo. L'eroe tuttavia agguanta la faretra piena di frecce.
Ci si sarebbe aspettati una scena adrenalinica, piena di furore e rabbia, un trionfo emozionante.
Invece no. Pasolini rallenta il ritmo, ammansisce la musica, e ci mostra Ulisse nella sua spietata vendetta. Egli sceglie di uccidere uomini indifesi ed arrendevoli, si imbratta di sangue, così come fa suo figlio. E man mano che la carneficina avanza, dentro di noi si fa largo quel senso di bellezza e di terrore (per i destini umani) che appartiene solo ai grandi classici, alle tragedie immortali.
La condanna dell'uomo, pure saggio, a compiere le più atroci nefandezze per dare compimento a una catena di morte e vendetta che non conosce fine. La condanna del Fato che ci impone di perpetrare il male nonostante tutto, come unica ratio.
In generale, il film di Pasolini si pone due nobili obiettivi. Da una parte rilegge in chiave attualizzante, profondamente moderna, la vicenda del ritorno a Itaca. Senza dee a intervenire, senza magie a proteggerlo, Ulisse pare un uomo piegato dalle fatiche, prostrato dal dolore, trasfigurato dalla guerra. Potrebbe agire, le doti fisiche e intellettive non sono venute meno, ma indugia più per timore che per strategia. Il suo piano sembra una trovata estemporanea più che un accurato disegno.
In Telemaco vediamo ora le incertezze e le fragilità dei giovani, la ribellione nei confronti di un padre a cui si rinfaccia ogni cosa. E Penelope è la donna retta costretta a sopportare le lusinghe, una figura alta e ieratica, quasi custode ultima della saggezza.
Dall'altra parte, ciò che più mi ha emozionato e colpito è il tentativo - in larga parte riuscito - di ridare profondità emotiva e spessore esistenziale a una vicenda che con il suo ripetersi millenario rischia di diventare una formula schematica. Pasolini non insegue il libro, lo fa vivere sui volti dilaniati dal dolore di Ralph Fiennes (monumentale) e Juliette Binoche.
Sembra dirci: questa storia la conosciamo tutti, ma ora proviamo a sentirla davvero, cerchiamo di provare quei sentimenti, comprendere le fatiche della guerra, dilaniarci insieme ai protagonisti nelle tremende lotte per un pezzo di terra petroso come Itaca.
Lo scenario è privo di lusinghe, un'isola selvaggia, e questi uomini si uccidono per due sassi o poco più. Come in un “Valhalla Rising” mediterraneo, gli esseri umani si scannano a vicenda, continuamente, ma non è chiaro per cosa, non c'è nulla sull'isola a parte l'uomo e la sua ferocia.
Pasolini indugia lungamente sul volto di Fiennes che incarna perfettamente tutti i sentimenti forse dati per scontati quando tra i banchi di scuola ci facevano studiare Omero. Quegli occhi acquosi ci ricordano che esiste ancora un cinema fatto di riflessione, di emozioni, di provocazioni. Un cinema per pensare e sentire, per interrogarsi su chi siamo veramente.
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