anno: 2006 - genere: Tropicalismo

“Ci sono molti modi di fare musica brasiliana: io li preferisco tutti!” Gilberto Gil ai tempi di “Tropicalia 2” 1993.

Gilberto Gil, attuale ministro della cultura del governo brasiliano, nel 1968, dopo due mesi di carcere ed un concerto i cui proventi servirono a pagare le spese di viaggio, insieme a Caetano Veloso, fu accompagnato, all’aeroporto dalle autorità poliziesche.

Destinazione Londra. Destinazione esilio.
Di quale crimine si erano macchiati?

COLPEVOLI DI TROPICALISMO!

“Tropicalia”, recentemente pubblicato dalla Soul Jazz, corredato di un libretto ricco di informazioni ed immagini, può considerarsi un estratto del capo d’accusa: 20 tracce, sonanti ed inequivocabili, disseminate all’epoca con numerose altre, che contribuirono ad inchiodare gli autori alle loro responsabilità: lesa maestà della musica tradizionale, contaminazione ai danni della sua purezza, euforia contagiosa, distorsione del suono.
Quello che venne denominato Tropicalismo era un movimento che riuniva intellettuali, artisti, musicisti nella direzione di un’apertura alle sollecitazioni che in quegli anni giungevano dal mondo, rappresentando di fatto una sfida al regime dittatoriale, instaurato nel 1964 con un golpe militare. L’album collettivo “Tropicália ou panis et circenses “(1968) può considerarsi il manifesto musicale di quel movimento, e i brani "Alegria, Alegria" di Veloso e "Domingo no Parque" di Gil, eseguiti al festival della musica di Sao Paulo, sono ritenuti le pietre miliari.
La raccolta che vi consiglio pesca con dovizia nel repertorio incriminato dei principali protagonisti: Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Os Mutantes, Tom Zè, con una traccia a nome Jorge Ben.

E sono sufficienti i primi minuti per comprendere la natura del crimine: il sitar che imperversa nella traccia iniziale (Bat Macumba) interpretata da Gil e Veloso non lascia dubbi sulle intenzioni degli autori, in quanto a volontà di contaminazione. Come le chitarre fuzzose che si affacciano in “Minha Menina”, un beat ad opera di Os Mutantes, con tanto di coretti e hand clapping. E via di questo passo: non è un oud quello che punteggia la “Tuareg” di Gal Costa, proditoriamente immersa in uno scenario arabo? E l’incedere claudicante di Alf8mega, con il suo basso funkoso e gli urletti che scoppiettano improvvisi, intorno alla voce di un Veloso giovane e divertito?

Si tratta di pop, in fondo. Una versione brasiliana delle attitudini che altrove, e con altri esiti, in quegli anni avevano manifestato musicisti di estrazioni e latitudini diverse. Così che in queste canzoni trovano posto inedite commistioni timbriche, inusuali soluzioni compositive e piccole ruvidezze sonore, la psichedelica che sposa suggestioni africane, in una ibridazione gioiosa e apparentemente naturale.
Pare quindi inevitabile la condanna, mentre scorrono le prove di un crimine tanto articolato. Non conoscevo, ad esempio, le efferatezze degli Os Mutantes, il trio composto dai fratelli Baptista e dalla vocalist Rita Lee: ma nelle sei canzoni presenti, queste appaiono lampanti. Come in ”Ave Genghis Khan”, acida e onirica, un beat condito da tastierine lisergiche e chitarre in distorsione, sul quale il coro soffia morbidamente la sua ode. E non è certo esente da colpe neppure quel Tom Zè, recentemente portato a maggior visibilità dalla Luaka Bop di David Byrne: è il modo di arrangiare una canzone, quello che usa in “Jimmy, Renda-Se”? E la sequenza dei misfatti prosegue, con esiti diversi e caleidoscopici, senza ombre di pentimenti.

PROIBIDO PROIBIR

Se la sentenza di colpevolezza risulta, a seguito delle prove raccolte, inappellabile, altrettanto indiscutibile è la coerenza degli elementi a nostra disposizione con quella che suona come una parola d’ordine (o disordine?) riportata anche sulla copertina del cd: Proibido proibir.

Lungo tutti i 20 brani che lo costituiscono, serpeggia nel disco lo spirito che essa evidentemente manifesta. Rifiutando di reprimere la smodata propensione ad unire in un solo crogiuolo tante anime, (così distanti) tanti suoni (così incompatibili) tanta gorgogliante vastità di approcci ed ispirazioni, gli imputati agirono nella consapevolezza di compiere un misfatto, applicando alla propria musica il loro slogan velleitario.


Ascolto la canzone che chiude la raccolta, la versione di ”Bat Macuba”, degli Os Mutantes, che inizia in Africa e avanzando si colora di scherzi sonori. E ancora non mi capacito del fatto che questa musica così fresca e divertente possa essere divenuta, dentro uno dei molti buchi neri disseminati nella storia (troppo spesso dimenticati o ignoti) l’oggetto di una repressione. Simbolo di un’incolmabile distanza tra l’arroganza di un potere e il bisogno di libertà di una generazione, non solo di “artisti”.
E mi sorprende anche aver adoperato due parole che generalmente uso con grande cautela.

Ma in questi giorni, chissà perché, potere e libertà non mi "suonano" così retoriche.


Buona… primavera?

Carico i commenti... con calma