Richard Melville Hall, Moby in arte, lo conosciamo un po' tutti, ed è facile ben sproloquiare a proposito di pezzi come "Natural blues" o "In this world", che hanno fatto il giro del mondo in molto meno di 80 giorni; Moby è un cantante completo, il prototipo di "self-made man" che impianta un pezzo senza avere bisogno di musicisti, un discreto sperimentatore, un artista che ha capito le leggi di mercato e ha saputo coniugare i suoi interessi con quelli più modesti degli ascoltatori. Definire la tipologia di musica dell'americano non è facile, tanto più se si pensa che la sete di ricerca lo ha portato a scandagliare i territori più impervi della musica contemporanea e non: rivolgere quindi un occhio di attenzione a quei momenti di sperimentazione che avrebbero poi dato il la in ultima analisi a lavori come "Play" e "18" non è per niente inutile, anzi, a ben pensarci, viene da chiedersi se quei momenti transitori non fossero stati la vera essenza di Moby, di quel dj che sino al 1998 sfornava dischi di medio-basso successo tersi di techno-dance frammista a gospel, ad hard rock, ad ambient: c'è da chiederselo, e visti i suoi inizi la risposta sembra essere affermativa; Melville Hall è, prima di essere il Moby di "Play", "Voodoo Child".

Sotto questo pseudonimo esce nel 1996 "The End of Everything", uno di quei cd il cui solo titolo scoraggerebbe già a comprarne una copia: "la fine di tutto", pessimismo patente o moralismo laico? Non è dato saperlo, tanto più che il cd è solo strumentale, tegola che lo rende apparentemente ancora più insopportabile, e le sette tracce, tutte abbondantemente al di sopra dei sei minuti, sono un continuum esasperato che fa del leitmotiv una ripetizione estenuante: i numeri ci sono tutti per perdere la pazienza. "Dog Heaven", primo brano, è quasi patafisico: non è né musica né armonia: solo fuga di suoni elettronici che soltanto alla fine del pezzo accennano a qualcosa che ricordi una melodia; è questa la musica di Voodoo Child: minimalismo elettronico che nell'evoluzione del pezzo mira a diventare musica orchestrale. Se questa riflessione è perlopiù congettura riguardo al primo pezzo, diventa lampante dichiarazione di stile nella "trilogia dell' amore": "Patient Love", "Gentle Love" e "Honest Love", inframmezzate dalla torbida "Great Lake", compongono il trittico attraverso cui si esplica la poetica di Melville Hall. Dei tre pezzi il più immediato è forse il primo, il più incerto il secondo. Il più esplicativo, "Honest love", merita qualche attenzione in più. Il brano inizia in sordina su un motivo elementare in cui a turno gli elementi (ZONTA PUPPA) musicali si aggregano successivamente in ordine sparso: dopo pochi minuti piccola esitazione, poi eccoli sfociare in un exploit che si stempera in un gradevole e classicheggiante giro di piano; il pezzo viene sventrato del leitmotiv iniziale e procede infine sull' accompagnamento del piano per poi scemare ad libitum: in questo picolo incanto naif si enuclea un concetto musicale che vuole al centro della melodia la variazione di temi all' interno del brano, motivo schietto e "onesto", come suggerirebbe il titolo. Sulla stessa scia "Animal Sight", settima traccia, e parimenti, la catatonica "Slow Motion Suicide", piccolo capolavoro espressivo che attraverso suoni asettici e primordiali traduce visivamente la lenta agonia di un dolore sordo.

Meglio il Moby fruibile di "Porcelain" o l'estenuante Voodoo Child di "Patient Love"? Comprare (e confrontare) per capire: strano a dirsi, si tratta della stessa persona.

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