"Ognuno per sé e Dio per tutti": questo è il monito terribile che Werner Herzog, fra i più visionari e radicali registi viventi, scelse come titolo originale a questo suo film del 1974. Un titolo che dovette apparire così ermetico ai distributori internazionali, che preferirono ribattezzarlo con il nome del protagonista e un accenno al mistero che lo circonda, ma nel quale in realtà il regista aveva condensato la sua disperata visione sulla vicenda narrata.

Vicenda, fra l'altro, che si rifà ad un caso reale che aveva fatto di bocca in bocca il giro d'Europa nella prima metà dell'800 e, in parte (insieme ad altre storie analoghe), aveva già ispirato Truffaut nel suo "Il Ragazzo Selvaggio". Kaspar Hauser, uomo sulla trentina, viene un bel giorno ritrovato in mezzo alla piazza centrale di una cittadina tedesca, capace a malapena di reggersi in piedi e tanto estraneo al mondo da non saper parlare e perfino camminare. Nella sua mano una lettera con il suo nome e l'invito ad averne cura. Così, mentre il film prende in considerazione lo svolgersi della vita di Kaspar alla luce del sole fino alla tragica fine, viene da chiedersi cosa chiuda ognuno in sè fino a rendergli nemico Dio stesso; poi si lascia risuonare nell'animo il messaggio di questo film, che rimane dentro nella sua potentissima umanità dichiaratamente (e si direbbe evangelicamente) dedicata agli animi semplici, e si chiariscono molti dettagli in una serie di risposte, o visioni d'insieme.

E si capisce innanzitutto che ad essere impossibile è la comunicazione fra uomo e uomo - e fra uomo e Dio. Nel corso della pellicola Kaspar deve imparare passo dopo passo ad entrare in contatto con il mondo, a reagire ai suoi stimoli, ad interagire con i propri simili, tutte cose che, con lentezza e meticolosità, conquista, almeno in parte. Ma il passo decisivo, quello della condivisione delle proprie visioni, dei propri stati d'animo e dei propri desideri, non riuscirà mai - non solo a lui, s'intende, ma anche all'umanità che lo circonda: Kaspar, infatti, non sarà mai in grado di dire chi sia lui e chi sia il misterioso mentore che prima l'ha tenuto prigioniero, poi lo ha reintrodotto nella società e ne determinerà il destino; non sarà mai neanche in grado di esprimere le meravigliose visioni di terre lontane che si presentano ai suoi occhi (e che Herzog mostra in stupendi inserti, originariamente girati in Super8 e poi "gonfiati"), né di dare compimento a certe rivelazioni tutte interiori che lo portano vicino a Dio e al mondo ultraterreno.

Anche la società che lo circonda, comunque, non farà meglio. Per il "popolino" Kaspar è solo un fenomeno da baraccone, con il quale divertirsi (un po' come i Freaks di Tod Browning); per la borghesia e la nobiltà è un soggetto da plasmare a proprio piacimento e nel quale proiettare le proprie aspettative, finendo poi per disprezzarlo quando Kaspar mostrerà i suoi umanissimi limiti (la scena dell'esibizione al pianoforte, ad esempio). Ma Kaspar è anche il soggetto estraneo che può rappresentare il pericolo di portare alla luce il ridicolo: alla sua presenza le guardie, custodi dell'ordine, si comportano meschinamente, mentre la sua dialettica semplice e senza tanti fronzoli si prende gioco delle speculazioni logiche dei filosofi, che per non ammettere la propria sconfitta preferiscono umiliarlo. L'unica via d'uscita sembra essere il calore della famiglia che lo accoglie per primo, i suoi gesti semplici di genitori con un bimbo neonato, che però la società costringe a perdere la propria purezza

Si tratta, quindi, di una serie di quadri disperati che Herzog inscena con maestria e tutto il suo cuore: la scelta del dilettante (e problematico) Bruno S. nel ruolo del protagonista, l'uso pittorico del colore, le carrellate su una Germania che, a ridosso della propria sconvolgente rivoluzione industriale, si rivela ancora fortemente medievale, la scelta felicissima delle musiche (Pachelbel, Orlando di Lasso, ma anche una toccante scena con un Florian Fricke nella parte di un pianista cieco, tanto isolato dal resto del mondo, e proprio per questo incline all'estasi e alla visione incomunicabili quanto Kaspar stesso).

Alla fine, di Kaspar non rimarrà nulla, se non la constatazione di essere stati testimoni di un "caso scientifico". E' così che, dell'uomo che ha tentato di diventare creatura sociale, alla fine non rimane neanche l'umanità. Una prospettiva sicuramente oscura, questa di Herzog, ma che sicuramente riesce a farci vibrare con tutta la forza della sua sincerità.

Carico i commenti... con calma