"Senza stirpe nessun uomo può guardare a se stesso con amore" (S. Paolo)

"Odio tutti i padri e non ho mai voluto esserlo" (S. Zissou)

Dopo lo straniato "I Tenenbaum" ('01), Wes Anderson prosegue nel suo personale percorso di demolizione di certi luoghi comuni, e dei linguaggi che li descrivono, con "Le avventure acquatiche di Steve Zissou" ('04), film girato parzialmente in Italia - Cinecittà, Napoli - ed accolto con alterni giudizi di critica e pubblico.

Che si trattasse di un film quasi naturalmente votato al fallimento, nonostante il cast di livello, gli effetti speciali, i costumi, il sapore vagamente avventuroso del plot narrativo, lo si capisce, con l'immancabile senno di poi, ripensando allo sviluppo stesso del film, alquanto sorprendente rispetto alle apparenti premesse. Il che, come meglio tenterò di chiarire di seguito, non implica affatto che si tratti di un brutto film: andrebbe, piuttosto, ritenuto come un piccolo capolavoro semidimenticato - qualcuno direbbe "minore" -, almeno a mio parere e per i motivi che cercherò di chiarire di seguito.

"Le avventure..." si presenta, tautologicamente, proprio come un film "d'avventura": Steve Zissou, uno splendido ed attonito Bill Murray vagamente modellato su Jacques Cousteau, è un oceanografo ed esploratore marino che cerca di coniugare, nella sua attività, scienza, divulgazione, intrattenimento, marketing (film, poster, libri, pubblicità, financo le mirabolanti "Adidas Zissou"!). La morte del fraterno amico e collega Esteban, divorato da un misterioso squalo maculato (altresì noto come "squalo giaguaro"), che si nasconde nelle profondità dell'Oceano, spinge Zissou verso la sua avventura definitiva: la caccia alla belva, alla guida del suo battello - il Belafonte - popolato da personaggi del tutto improbabili, fra i quali un'ingegnere di bordo preciso e solerte, che si scoprirà essere un "ex autista di autobus" (Willem Defoe) una moglie "nata ricca e stronza" ma di intelligenza cristallina, (Anjelica Houston), l'ex marito di quest'ultima "un po' gay" e acerrimo rivale di Zissou (Jeff Goldblum), una giornalista gravida e angosciata (Kate Blanchett), un addetto alla sicurezza che canta Bowie in brasiliano (Seu Jorge), tecnici video e audio, uomini rana, sette interni dell'Università del Nord Alaska impiegati gratuitamente a bordo in cambio di un attestato di frequenza, soci finanziatori e, non ultimo, un presunto figlio segreto (Owen Wilson) già pilota per la Air Kentucky.

Ne seguono rocambolesche vicende da romanzo d'appendice, in cui intermezzi surreali si mescolano all'epica di mare spruzzata di modernariato vintage, culminando con l'incontro/scontro con lo squalo giaguaro, dove...

Va osservato come l'esposizione della trama rischi di trarre in inganno il lettore, ed ovviamente l'aspirante spettatore, circa la vera natura del film, che in realtà rovescia tanti aspetti triti e ritriti del film d'avventura, dando al titolo un tono più provocatorio che descrittivo. Il fatto che le avventure abbiano l'attributo di "acquatiche", del resto, ci induce quasi a ritenere che essa mirino a scandagliare più la profondità degli animi che quella dei mari, laddove l'acqua è simbolo stesso della vita, del liquido di cui sono composti i corpi e da cui la vita proviene (ed il titolo originale è, in effetti, "The Life aquatic...").

La stessa, maliziosa, autodefinizione del film viene dunque sconfessata durante la visione del lavoro, dove Anderson si diverte a decostruire il linguaggio ed i luoghi comuni tipici dei film d'avventura, e dei romanzi che ne costituiscono il modello implicito, frammentando e rallentando la trama quasi alla noia, rendendo la navigazione di Zissou e soci come una sorta di traversata di mari in eterna bonaccia, dove le vere tempeste sono interne agli animi dei protagonisti, e non tanto reali, pur a fronte degli sconquassi provenienti da pirati, belve marine, girandole di personaggi, incidenti di navigazione e volo.

Indicativi di ciò sono la tendenziale lentezza dei dialoghi, il marcato uso di piani sequenza e di un montaggio che non è mai convulso, come usuale nei film di genere, ma al contrario assai sorvegliato, l'ironica enfasi dei costumi e degli stessi personaggi secondari del film, oltre alla minuziosa definizione degli interni del Belafonte, protagonista inanimato del film: esso diviene quasi una casa - come il palazzo ne "I Tenenbaum" - se non addirittura il "teatro" entro il quale si muovono tutti i personaggi, luogo paradossalmente statico nonostante sia in continuo movimento, e dove il tempo non sembra realmente scorrere.

Il viaggio di Zissou e dei suoi compagni può essere allora letto non tanto come un percorso avventuroso, quanto come un'esperienza interiore di perdita e dolorosa riconquista degli affetti, occasionata da un lutto reale (la morte di Esteban) e da altri lutti variamente descritti nel corso della storia, dalla instabilità del matrimonio, alle reciproche invidie, agli amori espliciti e frustrati o velatamente omosessuali e rimossi, alla maternità problematica, per finire alla paternità mai desiderata, trovata, forse persa; l'esperienza diviene più cupa (come gli abissi del mare sui quali naviga superficialmente il battello) man mano che nel corso del film vengono descritte le tensioni, gelosie, ripicche, ansie dei i vari membri dell'equipaggio, raffigurato quasi come un'imperfetta famiglia occasionale, alternativa, irrisolta e malriuscita, del paradigma patriarcale di cui vorrebbe essere negazione.

Di fronte alle disillusioni, alla mancata accettazione degli altri e di se stesso, al disamore per il proprio lavoro e per gli esseri umani, ad una crisi senza sbocco apparente se non la dissoluzione e la morte, Zissou è un personaggio senza futuro, dal piglio nichilista ed autodistruttivo, quasi che l'agognato incontro con lo squalo giaguaro sia un tentativo, cosciente, di andare incontro alla morte e di raggiungere, nel Nulla, l'amico Esteban.

Lo stesso incontro con lo squalo giaguaro perde, però, la sua valenza epica e risolutiva, e, in una scena di rara suggestione, diviene la chiave di volta di tutta l'esistenza di Zissou: nato come speranza di vendetta, maturato come cupio dissolvi ed affermazione di un fallimento esistenziale, esso si svela come un'occasione di rinascita e come un paradossale recupero del senso di sé e dell'avventura.

Lo stupore attonito provato da Zissou e compagni di fronte allo squalo, bellezza pura e luce nelle tenebre, sembra quindi riconferire un significato alla vita dell'esploratore e, soprattutto, ricompone la solidarietà e fratellanza dei membri dell'equipaggio, e forse il senso della paternità smarrita, che quasi commuovono nella passeggiata sul tappeto rosso che conclude il film e nella successiva ripartenza del Belafonte, tinta di sogno e speranza, come conferma, incongrua, l'ombra del fumatore di pipa in cima alla nave.

Il fatto che tutto avvenga in maniera occasionale, senza relazioni di causa ed effetto e senza alcuna volontà dei protagonisti, nel clima di rapsodica follia che caratterizza l'intera storia, è forse la più riuscita metafora di una vita acquatica ed poliforme, in cui dolori, gioie, vita, morte e rinascita degli individui convivono e si mescolano continuamente, in un naufragare dolceamaro riscattato all'improvviso dall'entusiasmo e dallo stupore del bambino che Zissou porta, finalmente, sulle spalle.

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