Film (clamorosamente) mancante nel database debaseriano. Provo a metterci una toppa, anche se, forse, ai molti a cui il film è piaciuto non saranno d'accordo con questa recensione che non boccia ma nemmeno promuove a pieni voti un film tanto affascinante quanto, a mio avviso, alla lunga sopravvalutato.
Non sono, è bene dirlo, un fan tout-court di Wenders, e trovo il suo periodo tedesco, il primo, il più riuscito (quello di "Alice nelle città", 1973, per capirci) e trovo riuscitissimi anche i suoi documentari ("Buena Vista Social Club", 1998; "Pina", 2011) ma il Wenders degli anni '80 e, peggio, dei primi anni '90 mi lascia perplesso, compreso (eresia pura) il decantato "Il cielo sopra Berlino" (1987) che, però, mi sembra più a fuoco di questo "Paris, Texas".
Già, il periodo americano. Wenders, come tutti gli europei, è affascinato dagli spazi eterni degli Stati Uniti che si contrappongono a quelli più limitati del Vecchio Continente, così come è affascinato dall'idea di poter raccontare una storia in tutto e per tutto americana, una storia che non potrebbe essere mai e poi mai europea. E che i grandi spazi americani lo tentino quasi inconsciamente ce lo fa capire fin dalla prima sequenza, col protagonista (Harry Dean Stanton) perso a vagare nel deserto ai confini col Messico. Ed è subito tutto molto strano, perchè fino a quel momento a Wenders erano interessati più gli uomini rispetto all'ambiente circostante, ma credo che sia proprio questo il maggior pregio del film. Wenders, da europeo in "gita" negli Stati Uniti, nota paesaggi e architetture a cui un autoctono non farebbe nemmeno caso (alcune bellissime inquadrature delle autostrade tentacolari di Los Angeles; i dinosauri di cartapesta che si stagliano sullo sfondo di paesi completamente western) e sa raccontare, attraverso le immagini, un qualcosa che sta a metà tra la fascinazione del mito americano e il suo inevitabile decadimento.
Dunque, c'è un uomo che, appunto, si è perso nel deserto. Il fratello lo ritrova e lo riporta a casa. Si scopre che l'uomo ha un figlio e sta vagando l'America alla ricerca della sua ex-fidanzata (nonchè mamma del piccolo), di cui è ancora innamorato (o forse no, forse vorebbe solo rivederla). La differenza di età fra i due è notevole, e l'amore è stato più passionale, forse, che ragionato. Sia ciò che sia, la ritrova in un peep-show, le riconsegna il bambino e sparisce un'altra volta.
In soldoni questa è la trama, che è il punto debole del film. Perché se il primo tempo è notevole, col protagonista chiuso in un totale mutismo e il riaffiorare dei ricordi, nel momento in cui il nostro si prende il pargolo e se lo porta con sè alla ricerca della madre (sostanzialmente tutto il secondo tempo) il film comincia a soffrire di una staticità ben poco wendersiana e ben poco comprensibile. L'apice di tale staticità la si raggiunge in quella che dovrebbe essere la scena clou del film, l'incontro tra i due ex nel peep-show (con lui che può vedere lei, ma lei non può vedere lui, e capisce, dai racconti dell'uomo, chi è dall'altra parte del vetro): la sequenza dura 20 minuti, e tolta un po' di suspense iniziale, il resto sono 15 minuti di chiacchiere e di noia che né emozionano né commuovono. Così come il finale, aperto e un po' scontato (il protagonista è una delle figure meno affidabili mai apparse in un film), lascia l'amaro in bocca, soprattutto vista la durata, notevole, dell'opera: due ore e mezza. E' come se Wenders (e lo sceneggiatore L. M. Kit Carson, da un soggetto di Sam Shepard) si fosse concentrato sul toccante rapporto padre-figlio (davvero ottimo) e avesse perso meno tempo nel costruire quello fra i due ex, che appare superficiale e scontato, nonostante la bravura dei due attori e l'entrata in scena (quella sì da brividi) di Nastassja Kinski.
"[...] Alice nelle città negli spazi sconfinati degli Stati Uniti, Kramer contro Kramer in versione intellettuale" (Paolo Mereghetti)
Effettivamente, a tratti sembra di rivedere il film di Benton in salsa meno popolare e più con la puzza sotto il naso. Bisogna anche ricordare che raccontare l'America con gli occhi tipicamente europei non è facile, ci cascò persino Antonioni col complesso "Zabriskie Point" (1970), e questo in fondo è una delle tappe del cinema americano di Wenders, che aveva già avuto dei precedenti con "Hammett" (1982), come se l'inizio degli anni '80 avesse rappresentato per il regista tedesco una specie di recisione del cordone ombelicale dalla propria Patria (stranamente proprio nel momento in cui il cinema tedesco proponeva film di rilevanza mondiale, si pensi al mastodontico "Heimat", 1984).
Divenne, fin troppo velocemente, un cult ottenendo la Palma d'Oro al Festival di Cannes (Dirk Bogarde presidente di Giuria) in un Festival che, va detto, non proponeva opere particolarmente riuscite e, forse, fra tutte "Paris, Texas" aveva effettivamente qualcosa in più. La colonna sonora di Ry Cooder è notevole, puo' molto, non tutto.
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