1996, Detroit, Nate Young rappresenta gli Wolf eyes.

Rumori, decostruzione sonora attraverso synth, beatbox, transistor e vecchie console per videogiochi, questo è il punto di partenza che fa sbocciare il fenomeno degli occhi del lupo insieme ad Aaron Dilloway che, proprietario di una minuscola etichetta chiamata Hanson (Hanson records po box 7496 Ann Arbor, MI 48107 USA), aveva già iniziato a estrinsecare le sue oscure forme d’arte in demos densi di caos impreziosito da chitarre che fagocitano in chiave elettronica suggestioni industrial.
La Hanson Records sforna con regolarità impressionante una serie di Cd, CdR, cassette e demotape che sono di non semplice reperibilità, ma che colpiscono per intensità e violenza.

Cassette, cd-r e sette pollici in rigorose tirature limitate sono le forme di comunicazione di questo duo che, a seguito di una piccola parentesi newyorchese in trio con Andrew Wilkes-Krier (meglio conosciuto come Andrew W.K.), si trasferiscono presso Ann Arbor, Michigan, e conoscono John Olson, anch'egli responsabile di un'etichetta, la American Tapes.
L’American Tapes, etichetta che conta circa 300 titoli, spazia dalla collaborazione tra Black Dice & Wolf Eyes "Chimes in Black Water", sino a temibili lavori solisti dello stesso Aaron Dilloway intitolati “Insect voice”. John Olson arricchisce inoltre i lavori legati a questa etichetta, pubblicando anche una serie di curiosi volantini, manifesti che ne rilevano un’arte (se vogliamo usare questa parola) quasi espressionista, in cui per feste di Halloween, concerti o party dell’ultimo dell’anno, ritrova uno stile interessante che si avvicina alle immagini che la musica produce.

Un rigoroso bianco e nero rimanda direttamente alle immagini suscitate con la musica, immagini di agglomerati informi o mostri indecifrabili che donano un tocco straziante e, tramite collages o figure abbozzate a pennarello, cercano di trasmettere al pubblico una visione di ciò che potrebbe riservare il concerto o la festa, quasi a scongiurare perditempo e intrusi.
I risultati dell’amicizia del neo terzetto si trasformano ben presto in frequenti uscite discografiche: già nel 2001 si contano oltre una ventina (!) di titoli a nome Wolf Eyes, secondo il classico modus operandi da collettivo hardcore-noise, destinato irrimediabilmente ai margini del mercato musicale.
Ricordiamo lo split coi Black Dice del 2001 e “Dread”, il primo LP prodotto in quello stesso anno dalle etichette di Olson e Dilloway in tandem, oltre alla partecipazione alla fondamentale compilation del 2002 chiamata “If the Twenty First Century Didn't Exist It Would Be Necessary To Invent It” (con il brano “Cut The Dog”).

Gli Wolf Eyes licenziano sempre nel 2002 “Dead hills” grazie alla Troubleman e, poco più tardi, la stipula di un inaspettato contratto con la Sub Pop, apre le porte ad un mercato e una visibilità ben maggiori.
L’etichetta Troubleman Unlimited (16 Willow Strett Bayonne, NJ, USA), spostatasi in pochi anni dal post-punk creativo degli Shotmaker a gruppi diversi per intenti ed estrazione (come gli avant-rockers ABCS o le eroine neo-new wave Erase Errata), inizia in veste di fanzine dal titolo: “Wanna comunicate?”del fondatore MIke Simonetti. Il nome della testata deriva da un poster che Simonetti ricevette per Natale da sua zia e che rappresentava una scimmia attaccata ad un ramo con una sola mano sul punto di cadere e, sotto quell’immagine, c’era proprio la scritta “Wanna comunicate?”.

Con coraggio questa etichetta pubblica "Dead Hills" nel giugno 2002 in Adrian (MI), Stati Uniti ed è subito notte.
Un condensato di brutalità e caos violento che, dopo diversi anni, rimane ineguagliato nella scena free noise statunitense.
Una cloaca putribonda abitata da un formicaio extraterrestre è la migliore definizione che ho trovato per definire i momenti iniziali, dove nella prima traccia di oltre 11 minuti si nasconde un odio rumoroso, pronto ad esplodere, sembra di essere al capezzale di un enorme mostro dormiente che, nell’attimo del risveglio, si trasforma in violenza sonora.
E’ una traccia che già racchiude molto della poetica degli Wolf eyes, vengono manipolati strumenti, distrutti microfoni con urla laceranti, l’inquietudine crescente che popola i paesaggi neri e rossi di questo disco e della carriera del gruppo. Un abisso siderale caratterizzato da un'intensità cosmica crescente: il giorno del giudizio è arrivato e il responso è la dannazione eterna.
Come se i corvi che volano nei celebri campi di grano di Van Gogh potessero urlare, gracchiare e far da colonna sonora alle turbe psichiche. Le opere di Van Gogh hanno paradossalmente troppo colore rispetto alle tracce degli Wolf eyes che, senza ombra di dubbio, sono quanto di più nero possa offrire il panorama musicale odierno.
Un nero squarciato da fenditure rosso sangue, ho letto che spesso si assimilano all’universo del pittore Bosch, ma è un’immagine che non mi trova d’accordo, gli Wolf eyes, se proprio devono trovare un parallelo in pittura, sono proprio quei corvi che volano nei campi di Van Gogh, neri e stilizzati.

La seconda traccia prosegue il cammino del mostro appena risvegliato dalla prima e, con basi ritmiche più definite, si popola di una voce di Young che culmina in frasi svogliate e urla laceranti, urla da effettuare chino sul microfono, in posizione pronta per sputare l’odio al mondo.
Le lacerazioni vengono modificate, alterate, ripetute nello spazio di poco più di 3 minuti e la chitarra viene quasi a sfidare l’ascoltatore ad alzare il volume. Ossessione e brutalità squarciata da elettronica, grida sgraziate e disadattate che rigurgitano il timore e la violenza della società di oggi, tutto infatti suona così attuale e contemporaneo ed è questo che fa paura.
Nessuno si sente estraneo alla violenza degli Wolf eyes, non esiste la divisione tra ascoltatore e musica, sembra di aver già sentito questa disperazione nella vita quotidiana, di averla già vista nelle immagini dei telegiornali, è una disperazione che ognuno di noi nasconde in sé.
Non esiste estraniazione come ad esempio in un pezzo grindcore, ma la violenza sgorga da dentro di noi, è propria dell’uomo contemporaneo.
Il climax, giocato sulle sincopi dei bassi analogici rubati al ghetto e le urla indicibili di Young, è un sabba dalla crescente tensione che, invece di esplodere, si dilegua come in un qualche spaventevole rituale. Non c’è niente di satanico o esoterico, ma una visione industriale della malattia.

Rotten tropics” non è altro che l’ideale conclusione della malattia, si basa su circa cinque minuti di urla incalzante che fagocitano l’ascoltatore e il fondo musicale fatto di lamenti e brusii industriali, meccaniche ripetizioni percussive. La paura di scontrarsi verso un mondo rugginoso e cattivo di latrati.

Adesso basta, mi alzo e spengo lo stereo con uno strano formicolio in corpo, le malattie sottocutanee si riversano in me come sabbia e sangue su oceani di ferro.

01.Dead Hills
02.Dead Hills 2  
03.Rotten Tropics

Etichetta: Troubleman

Elenco tracce e video

01   Dead Hills (11:08)

02   Dead Hills 2 (05:46)

03   Rotten Tropics (06:31)

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