"Banshun (Tarda Primavera)" è stata la mia prima esperienza con Yasujiro Ozu e tra le prime pellicole giapponesi a cui mi sono avvicinato non molto tempo fa. Non avendo mai letto alcuna recensione in merito non avevo idea di cosa aspettarmi, anche perché ero reduce dalla visione di opere mastodontiche quali Ran e Ugetsu Monogatari, rispettivamente di Kurosawa e Mizoguchi: ma di samurai, avidi contadini puzzoni e donne crudelmente seviziate dal destino non c'era traccia. È piuttosto la società giapponese (dai primi decenni del ‘900 fino al dopoguerra) ad essere rappresentata attraverso immagini squisite che sembrano tanto provenire da vecchi album di famiglia in bianco e nero; i film di Ozu, in un modo o nell'altro, sono sempre figli del loro tempo.

La cosa che mi è subito saltata all'occhio e che più mi ha colpito di tali film è che non succede assolutamente nulla di sensazionale: ci vengono mostrate persone che mangiano assieme, bevono tè o saké, discutono del più e del meno; vanno in bicicletta, passeggiano per qualche strada assolata sotto un cielo terso, circondati da una natura rigogliosa ma quieta; compiono gesti quotidiani tra le accoglienti mura di casa, sorridendo o magari piangendo. Il tutto inserito in tempi molto dilatati, all’apparenza morti. I pochissimi eventi che segnano le storie sono quanto di più normale e ordinario (nel bene o nel male) si possa concepire: c'è chi si sposa (spesso a malincuore), chi invecchia e chi muore. Siamo lontani dalle donne cadute in disgrazia di Mizoguchi, e ancora più lontani dai personaggi spregevoli o eroici (ma pur sempre mitici) del Kurosawa più medioevale. I personaggi di Ozu, dal canto loro, non subiscono alcuna costruzione: sono reali, palpabili, vicini a noi.

Non si può comunque dire che il cinema dell'ultimo Ozu brilli per inventiva: il cast è pressappoco lo stesso, lo stile è sempre rigoroso, estremamente sobrio, con inquadrature ribassate, ferme e distaccate, le sceneggiature si somigliano un po' tutte, e all'adorabile Setsuko Hara, la vera musa del regista, spetta solitamente la parte della donna che dovrebbe sposarsi, pur non avendone molta voglia. Per riassumere la trama di queste opere basterebbero davvero quattro parole messe in croce.

E così accade in Banshun. Noriko ha 27 anni, vive col padre vedovo (l'onnipresente Chishu Ryu) e non ha nessuna intenzione di prendersi un marito e iniziare una nuova vita; è felice così e, attraverso gli occhi di un realismo asciutto e rassegnato, eppure pacato e assorto, non ci viene concessa alcuna spiegazione di tale scelta, tranne per il fatto che non vorrebbe lasciare il padre da solo. È una questione che evidentemente non ci riguarda, proprio come non ci riguardano certi dettagli appena accennati che invece potremmo trovare interessanti (perché e quando è morta la madre? perché non ci viene nemmeno mostrato il futuro sposo della protagonista?). Nel cinema di Ozu non c'è spazio per approfondimenti o artifici psicologici: viviamo gioie e drammi in presa diretta, negli scambi di sguardi e gesti, nelle piccole cose che diventano grandi specchi di vita, nel tempo che scorre e coglie alla sprovvista, nell'atmosfera intima scandita da dialoghi semplici o silenzi pudici, appena riempiti da una colonna sonora dolceamara ma mai leziosa, e soprattutto nelle convenzioni sociali (ora più che mai in contrasto con la modernità nascente) che spingono i nostri protagonisti a comportarsi in un certo modo, limitandone la felicità.

Noriko, grazie a (o a causa di) un semplice stratagemma ideato dal padre, alla fine si sposerà. Vengono impiegate ben due ore per raccontare una storia così esile e scontata solo in superficie, eppure le immagini che restano simbolicamente impresse sono molte e inestimabili; su tutte il finale, uno dei più toccanti che mi sia capitato di vedere: quel padre che, a seguito del matrimonio della figlia, torna a casa e si ritrova ad affrontare la solitudine della vecchiaia sbucciando una mela, un gesto che dovrà compiere da solo per chissà quanto altro tempo, con le mani sempre più rugose e tremanti; quel padre che, ormai nudo, lascia cadere a terra la buccia assieme alla propria imperturbabilità, e quindi china il capo, piano, con contegno, in un momento di sconforto destinato a riflettersi sulla spiaggia deserta inquadrata prima della parola "fine" e, forse, ad annegare tra le (nostre?) lacrime anche dopo che lo schermo sarà diventato nero.

Banshun, capolavoro tanto composto ed essenziale nella forma quanto carico di tenerezza e drammaticità nelle sensazioni finemente trasmesse, è stato per me solo l'inizio del viaggio nella filmografia Ozu. Pur non ritenendolo il suo lavoro migliore, titolo che spetta di diritto a Tokyo Monogatari, avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. A colossi quali Kurosawa o Mizoguchi riconosco il merito di aver creato le opere più grandi e inestimabili che il cinema mi abbia mai regalato; ma è con la poesia di Ozu che più riesco a entrare in intimo contatto, e riconoscermi così nella gestualità più umile, nell'austerità di un'inquadratura, nell'umanità che può trasparire da un solo, semplice sguardo.

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