Qualche mese fa capitò nel mio lettore il loro secondo disco, “War Prayer”, del 2003.
Ascoltandolo fu inevitabile andare con la memoria al trio gallese che agli inizi degli anni ottanta depositò un disco per poi scomparire nel vuoto dal quale pareva provenire.

Le affinità tra gli Young Marble Giants e i gli statunitensi iniziavano dal nome, in quel richiamo ad una gioventù che per gli uni era ironicamente gigantesca e marmorea e per gli altri attinta dalla rappresentazione che ne dava il cinema americano degli anni ’40.

Affinità che si riscontravano anche nella formazione (in entrambi i casi un trio) e nella propensione: estrarre dall’evidente parsimonia di mezzi gli elementi che avrebbero costituito la scarna struttura delle loro canzoni.

Quel che invece distanziava non solo temporalmente i due lavori era la maggior poliedricità messa in campo dagli Young People: se i brani erano spesso addirittura più brevi delle miniature gallesi, questo non impediva repentini cambi di suoni, accenni ad una rilassatezza quasi folk che non aveva il tempo di dispiegarsi, aggredita da subitanee accelerazioni, concentrati di sbilenca percussività. E l’allusione ad una melodia nella voce della cantante conviveva con nervose chitarre distorte, o recitava soffice in atmosfere quasi spettrali. Lasciandosi poi andare, come in un gioco di citazioni, ad uno scarnificato rock’n roll nel finale del brano che chiudeva il disco. 11 “canzoni” o meglio 11 possibili canzoni in meno di 25 minuti. Più condensati degli Y.M.G.!

A differenza dei gallesi, però, gli Young People non solo hanno superato egregiamente lo scoglio del secondo disco, ma si ripresentano alla terza prova, nel 2006, con un organico ulteriormente ridotto: ora sono un duo. E conservano lo spartano “equipaggiamento”, non unicamente strumentale ma anche d’intenti, che li caratterizza. Insieme ad un approccio vagamente naif.

Abituato alle mutazioni che la sopravvivenza nel mercato impone, immaginavo per loro l’approdo ad una forma canzone più canonica, un tentativo di articolare in una configurazione meno frammentaria i germogli dei loro brani.

Ma in “R&R”, il primo del disco, la frase ripetuta dal pianoforte e l’asciutto beat metronomico sullo sfondo, disegnano l’ambiente che ci accoglie e nel quale la voce distesa di Katie Eastburn passeggia portando la propria semplice melodia sino ad una lapidaria chiusa. Dimostrando sin da subito quel che il resto del disco confermerà: si tratta di una ulteriore indagine sulle possibili coniugazioni della loro attitudine. Nutrita, in questo caso, da un’attenzione ancora più marcata ai contrasti generati da brevi sospensioni, dall’apparire e dileguarsi d’un suono, dalle piccole variazioni nell’intonazione della voce, nel suo giocare con le atmosfere che l’intreccio tra pochi elementi è in grado di generare.

Ad esempio nello scoppio improvviso di un vortice di chitarre punteggiate da un sibilo con il quale inizia “On The Farm”, dopo la rarefazione con la quale si chiudeva il brano precedente, “Reapers”. Vortice che si interrompe però bruscamente per rilasciare scorie di suoni in distorsione tra i quali l’apparente fragilità della voce acquista una fisionomia quasi teatrale.

E subito dopo, in “F”, sono i rimbalzi liquidi di un suono di tastiera ad intrecciarsi con una base percussiva generata dai palmi di due mani, in un battito ovattato, a offrire l’occasione per l’ennesimo bozzetto.

In “The Clock” ancora pallidi accordi di pianoforte, e larghe pozioni di silenzio, tutto intorno alla melodia vocale sospesa, che accenna un “ritornello” per i pochi secondi nei quali i tasti incedono ritmici.

Quasi in ogni pezzo convivono squarci di tensione e sprazzi di vuoto, fantasmi di melodie e spigolosità. Poi, nell’ultimo, “Ride On”, il cerchio sembra chiudersi quando si riaffaccia il ricordo dei progenitori gallesi, nel suono del basso e nella estrema semplicità della struttura del pezzo, che si interrompe quando sta prendendo forma ed entrando in circolo.

Insomma, questo concentrato di possibilità in forma di disco (questa volta 11 canzoni in 27’ 35’’) tornerà più volte nel vostro lettore, proprio per la sensazione di “incompiutezza” che lo attraversa e per i suoi germogli sempre sul punto di sbocciare. O forse, per la medesima ragione, ne sarà perentoriamente espulso.

Voi potete trarre alcuni indizi dagli estratti sonori che ho allegati.

Io continuo a far roteare “All At Once”, un poco rimpiangendo di essermi perso una loro recente data nella mia città, che avrebbe consentito di verificare se lo spettro di una canzone si può “materializzare” così bene anche live.

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