La prima volta che mi capitò di sentire una canzone di Zemfira fu dall'autoradio del taxi che mi spostava alla velocità di alcuni metri all'ora tra i colossali ingorghi del centro di Mosca. Era l'anno 1999. Lì per lì non ci feci molto caso. Un pezzo gradevole, va bene, ma niente di più. Sennonché, mi accorsi che quella canzone chissà perché mi era rimasta in mente. Chi era quel gruppo russo che cantava quel brano dal suono così "occidentale", melodico e teso al tempo stesso, con una vocalist femmina in grado di dare alla propria voce coloriture insieme vellutate e decise, potenti e delicate, e con quel testo che trattava con disincantato lirismo dei minimi fatti della vita e dei sogni di una ragazza russa qualunque, persa in una Mosca fradicia e per niente ospitale? Eppoi ricordo che mi colpì la pausa prima del finale, dove, sull'unico suono rimasto, quello delle tastiere, il chorus che andava poi a sfumare era introdotto da una rullata commoventemente simile a quella di "Pride (In The Name Of Love)", proprio nella versione primigenia di "The Unforgettable Fire". Com'è mia abitudine quando sento una musica che attira la mia attenzione, presi a raccogliere indizi.

Non ci misi molto a sapere. Il pezzo si chiamava "Arivederci", nella traslitterazione russa scritto proprio così, mancante di un'erre. E si trattava non di un gruppo, bensì di una cantante, Zemfira Ramazanova, nata a Ufa, città industrial-petrolifera russa alle porte degli Urali, il 26 agosto 1976. In realtà, come mi resi conto di lì a poco, la frequenza con cui in quei mesi ovunque in Russia era possibile udire quel brano, insieme a due o tre altri tratti dal medesimo album opera prima e omonima dell'artista, era la tangibile testimonianza di un fenomeno nascente in Russia: la zemfiromania dilagava ogni giorno di più.

In Russia, dal momento dell'apparizione del fenomeno Zemfira, sono scorsi fiumi di parole da parte di critici musicali e sociologi che hanno tentato di spiegare il motivo di tanto successo. Nel breve spazio di una recensione non si riuscirebbe a svolgere un'approfondita riflessione sull'argomento, ma è certo che Zemfira arriva a scuotere dalle fondamenta un panorama musicale in Russia alquanto stantio, dominato, da una parte, dagli stanchi epigoni di Vladimir Vysotsky e degli chansonniers francesi che cantano con voci tristi e martoriate dalla vodka e dalle sigarette senza filtro delle quotidiane miserie postsovietiche, miserie materiali, e anche, più spesso, spirituali. Dall'altro canto, produzioni low cost in serie illimitata di canzonette pop tutte molto simili tra loro, private di qualsiasi senso e valore, affidate alla voce o anche soltanto alla faccia di perfetti sconosciuti tanto fragorosamente acclamati quanto velocemente dimenticati, ovvero dimenticabili. E invece, Zemfira. Lei propone e impone uno stile mai sentito prima. Veste di accattivanti, talvolta geniali abiti elettropop, piuttosto che decisamente rock, piuttosto che di atmosfere e ritmi latinoamericani (l'eclettismo nella frequentazione dei più disparati generi musicali è una delle sue peculiarità) riflessioni personalissime sul senso della vita, parlando di se stessa e chiamandosi per nome fin nei titoli delle canzoni, sincera nei suoi testi talvolta fino all'ingenuità, epperò sempre autentica, a volte vulnerabile e dolcissima, a volte insolente e rompiballe come un mocciosetto dei tanti bronx delle periferie russe, ma è proprio così che, con estrema naturalezza, riesce a diventare portavoce di una grossa fetta di società russa, cioè le ragazze e i ragazzi dai 15 ai 25-30 anni. E lo fa rivoluzionando il linguaggio della forma-canzone, introducendo espressioni tratte dallo slang delle periferie di Mosca e mischiandolo con spruzzate di singoli vocaboli inglesi, tenendo in scarsissima considerazione metrica e rime, e tuttavia riuscendo spesso a conciliare mirabilmente tra loro suono intrinseco della parola, melodia su cui essa poggia, ed emozioni e vibrazioni che salgono (rispettivamente) al cuore e al cervello quando ascolti le sue parole dentro la sua musica.

E così, Zemfira, da bambina prodigio, mandata a cinque anni dai genitori, padre insegnante di storia e madre medico, a scuola di piano, a sette autrice del testo e della musica della sua prima canzone, nei prima anni Novanta capitano della nazionale femminile russa di basket, nel 2000, a 24 anni, con un solo long playing all'attivo, si trova ad essere uno dei personaggi più popolari in Russia e ricca abbastanza da poter restituire senza troppe angosce la bella cifra di circa centocinquantamila dollari che Leonid Burlakov, suo primo produttore, aveva investito per la realizzazione dell'album d'esordio "Zemfira", per porre fine a discussioni non proprio pacate che erano seguite tra i due all'annuncio fatto da Zemfira a Burlakov che il secondo album se lo sarebbe prodotta da sola, senza di lui. Zemfira quindi passa alla produzione, e registra tra Mosca e il Whitfield Street Studio di Londra un album suonato con i musicisti che avevano costituito il suo gruppo originario.

"Prosti Menya Moya Liubov' ", che contiene 12 brani, si apre in modo a dir la verità non proprio entusiasmante con "Shkalyat Datchiki", un pezzo rockeggiante in cui si accenna al problema della tossicodipendenza, prevedibile nella struttura compositiva e nelle soluzioni stilistiche, per cui può stancare dopo qualche ascolto. Le cose migliorano decisamente con il secondo brano, "Zero", gradevole promenade musicale intrisa di reminescenze dei Doors di "Light My Fire" e "Riders On The Storm". Il terzo brano, Sozrela, è il primo hit single di questo album. Si tratta di una sorta di filastrocca in musica in cui Zemfira si diverte a smontare il cliché da lei stessa costruito in "Romashki", contenuto nell'album precedente. In entrambe le canzoni l'autrice offre un ritratto di se stessa, ma mentre nel primo brano è la devochka s pleerom, cioè una ragazzina irriverente e spensierata che passa le giornate con la musica del walkman costantemente sparata nelle orecchie, in "Sozrela" è cresciuta e maturata, è già una donna, riflette sul fatto che la vita pone quesiti che richiedono di avere sempre pronta una risposta, si accorge di vivere non più solo per se stessa, ma anche per le persone che la circondano con intenzioni non sempre dichiarate e oneste, e come risposta a questa acquisita consapevolezza non le resta altro che chiudersi nella sua sconsolata solitudine. Questo brano musicalmente non ci pare uno dei più riusciti dell'album, per cui ascoltandolo viene spesso voglia di sapere cosa verrà dopo.

E dopo viene effettivamente una canzone di gran classe, "Khochesh' ". Zemfira, in questa raffinata ballad, nella quale si segnalano, tra gli altri momenti, il pregevole assolo di chitarra elettrica, affronta il tema eterno di Eros e Thanatos. L'Amore è quello che l'autrice prova per la persona amata; la Morte è quella che lei cerca di evitare a questa persona: Ti prego, non morire / Altrimenti a me toccherà lo stesso (Pozhaluysta ne umiraj / Ili mne pridetsja tozhe), e inoltre quella che promette di dare a tutti quanti si opporranno alla loro felicità (Vuoi che uccida i vicini / Che non ti fanno dormire? (Khochesh' ja ub'yu sosedej, / Chto meshaiut spat'?). Altro brano gradevole è "Rassvety", in cui spiccano la base sintetizzata e la chitarra slide sul melodico chorus. In "Nenavizhu", brano caratterizzato da un'accentuata sezione ritmica, Zemfira si lascia andare, peraltro già nel titolo (Ti odio) a quel pessimismo compiaciuto e distruttivo che ritornerà purtroppo spesso nella sua produzione più recente (album "Vendetta", 2005). I due brani successivi, "Sigarety" e "Dokazano" sono una prova della straordinaria capacità di quest'autrice di costruire melodie allo stato puro. In "Sigarety" presenta un tema molto diffuso nella produzione rock russa: il rapporto imprescindibile tra essere umano e nicotina: Se si potesse / Incollare nel profondo del cuore dei ritratti / Anch'io per ricordo lascerei le mie sigarette (Esli by mozhno / V serdce, poglubzhe, vkleit' portrety / I ja na pamyat' ostavlyu svoi sigarety ). E viene quindi pressoché automatico il collegamento con quella che è forse la canzone pop russa più famosa su questo tema, cioè "Pachka sigaret", di Viktor Tsoy e i suoi Kino, il più celebre gruppo pop-rock russo degli anni Ottanta. In "Dokazano", con una serie di veloci quadretti impressionistici, Zemfira presenta la figura della propria madre, intenta a leggere un romanzo di Nabokov mentre viaggia in un vagone della metropolitana.

La splendida title-track "Prosti Menya Moya Lyubov' " è retta da un lullaby di chitarra elettrica potentemente suggestivo. Notevoli in questo brano le tastiere e la chitarra acustica suonata dalla stessa Zemfira. La metafora del mare viene utilizzata per parlare dei ricordi legati alla persona amata, ora assente e lontana. I ricordi, come le onde del mare, vanno e vengono, sembrano reali e presenti, tali che si vorrebbe afferrarli e tenerli con sé, e invece subito si allontanano, lasciando il vuoto nell'animo e il bisogno di chiedere perdono all'interlocutore assente: Perdonami Amore Mio (Prosti Menya Moya Lyubov'). Il testo è costruito su poche immagini e situazioni, racchiuse dal chorus che coincide con il titolo. L'autrice è sulla riva del mare, guarda i pescatori gettare e tirare a riva le reti nelle cui maglie si sono impigliate le anime dei due amanti, poi sente aderire alla pelle i jeans inzuppati d'acqua, che le danno una sensazione spiacevole, come di un peso che attira verso il fondo di una situazione da cui si fa fatica a tirarsi fuori. E nello sconfinato silenzio dove non si ode né il trascorrere delle ore né lo stridìo dei gabbiani, la persona amata non è che una sagoma del colore del bronzo sulla sabbia. Perdonami Amore Mio, Prosti Menya Moya Lyubov'. Ascoltate questa canzone se volete provare emozioni tramite la musica, meglio se accompagnata dal bellissimo video, dove Zemfira, sulla riva del mare, è femminile come non mai in un lungo vestito nero e finalmente libera dalle resistenze a mostrare i suoi vispi occhietti tatari, che altrimenti era solita nascondere dietro scuri occhiali da sole e dietro i capelli che le scendevano sulla fronte. Nel video vediamo Zemfira dapprima tentare un esitante approccio a un umanoide materializzatosi dal mare, vorrebbe tendergli la mano, ma l'essere risponde ritraendosi di scatto, spaventato. E Zemfira ha una reazione speculare a quella. Poi la vediamo correre sulla riva del mare, cadere stremata sulla sabbia, e infine attorniata da molteplici cloni di se stessa. Canzone toccante, splendido video. "Iskala" è un altro dei brani portanti dell'album. Ancora una volta Zemfira è alle prese con un tema d'amore; il testo è concepito come una cronaca della ricerca che la protagonista, nelle vesti, quasi, di un dectective privato, conduce con assoluta determinazione allo scopo di ritrovare l'amante perduto. Il brano è molto valido musicalmente. Su un ritmo sincopato si inserisce un pizzicato d'archi che, come per altri brani dell'artista, può tradire fonti di ispirazione più o meno scoperte. Io qui ho avvertito per esempio un richiamo allo Sting di "Englishman In New York". La canzone di Zemfira è comunque dotata di una sua bellezza intrinseca, tale da farsi perdonare eventuali rieccheggiamenti a brani già noti. Notevole, inoltre, la batteria che si scaraventa rovinosa come una slavina sul riff di chitarra del chorus. La gradevole ballad "Ne Otpuskaj" chiude l'album in modo sicuramente migliore di com'era iniziato.

Anche se questo non è il lavoro migliore di Zemfira, che fino a questo momento rimane l'album d'esordio, "Prosti Menya Moya Lyubov' " è sicuramente un'opera riuscita. Ancora non del tutto presa dai problemi dovuti alla non facile gestione del suo personaggio pubblico, non pressata dalle leggi implacabili dello showbusiness, alle quali sembra progressivamente soccombere nelle opere successive, Zemfira in questo Lp riesce ancora a realizzare un felice equilibrio tra ispirazione originaria e risultato artistico finale. Per questo motivo l'album risulta molto gradevole, con alcuni picchi di eccellenza, sui quali svetta la title-track.

Zemfira, "Prosti Menya Moya Lyubov' ", Real Records, 2000
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